(WSI) – Dalla metà di ottobre il dollaro si è svalutato del 7% nei confronti delle principali valute. Dagli inizi del 2002 la caduta, nei confronti dell’euro, è stata del 35%. E del 24% nei confronti dello yen. Cosa accade, quindi, sull’altra sponda dell’Atlantico? Se lo stesso Greenspan, il carismatico presidente della Federal Reserve, in un momento di sconforto – o di sincerità? – ha dovuto ammettere che il deficit accumulato dal suo paese è sempre meno sostenibile. E che gli investitori, che finora ne avevano garantito la relativa copertura, stanno perdendo ogni appetito.
Il mercato ha capito il segnale e si è comportato di conseguenza. L’euro, in meno di una settimana da quella pronuncia, è schizzato a 1,34 dollari: un piccolo record. Che la dice lunga sulle difficoltà del biglietto verde. E sulla mancata risposta europea. Mancata: perché, più o meno negli stessi giorni, la Bce – la banca centrale europea – ha deciso di non decidere. E forse è stato un bene. Se fossero state mantenute le promesse della vigilia, tutte orientate all’aumento dei tassi di interesse, il rapporto con il dollaro avrebbe subito un altro contraccolpo.
Le previsioni più pessimistiche parlano di un euro pari ad 1 dollaro e 80 centesimi e di un’ulteriore svalutazione del 30%. Un disastro per l’Europa. Che la spingerebbe, sulle orme del Giappone, verso la china della deflazione.
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Il problema del dollaro ha, quindi, una portata generale. Riguarda gli equilibri geopolitici del Globo ed il regolare funzionamento dello stesso sistema monetario internazionale. Attualmente il suo peso relativo sul totale delle riserve valutarie delle banche centrali è pari a circa il 65%. A metà degli anni ’70 era ancora pari all’80%. Questo beneficio offre al più forte paese occidentale un diritto di signoraggio. Può battere moneta, senza curarsi minimante degli effetti che produce. Finora gli è andata bene.
L’eccesso di liquidità sui mercati internazionali ha favorito l’inserimento di nuovi partner commerciali: India e Cina soprattutto. Ed entrambi hanno mostrato la loro riconoscenza. Parte dei dollari in eccesso è stata sterilizzata nei forzieri delle banche centrali. In compenso gli Usa hanno dovuto accettare che le monete di quei paesi non fossero rivalutate. Nonostante i forti attivi delle relative bilance dei pagamenti.
Un compromesso era stato quindi trovato. Ma se il punto di equilibrio dovesse saltare, a causa di una riedizione della politica del benign neglect, tutto tornerebbe in discussione. Ed i partner americani, con ogni probabilità, si rivolgerebbero altrove, scegliendo altre (yen ed euro) monete di riferimento. Questo spiega il dilemma americano e le preoccupazioni di cui si è fatto interprete lo stesso Greenspan.
Occorre contenere il deficit, che calcoli recenti proiettano addirittura all’8% del Pil, nel 2008. E per farlo occorre tagliare le spese federali e ridurre il tasso di crescita delle importazioni.
Non sarà facile. Attualmente le importazioni americane superano del 50% le esportazioni. Un simile squilibrio ha favorito la forte crescita economica del paese. Le esportazioni dal Far East – la Cina in testa – hanno il vantaggio di un prezzo modesto. Consentono, quindi, un forte contenimento del tasso di inflazione ed una crescita dei salari reali. Ed è questa una condizione alla quale lo stesso Bush, nel corso del ciclo elettorale, non poteva rinunciare.
Oggi, vinte le elezioni, si vedrà. Ma nel frattempo il problema ha assunto una dimensione ben più preoccupante. Tanto più che le soluzioni non sono a portata di mano.
Nella sostanza, il grande sviluppo americano degli anni ’90 è stato la risultante di due fattori. Una politica dell’offerta, maturata sull’onda delle new economy, che ha consentito la diffusione dei nuovi prodotti della ricerca tecnologica. Il forte volano di una domanda interna essenzialmente alimentata dal debito delle famiglie e delle imprese. Questo secondo elemento è stato, in un certo senso, il prius. Se i consumatori non avessero avuto a disposizione i mezzi finanziari, il processo di diffusione dell’innovazione avrebbe avuto tempi molto più lenti. E la crescita del Pil sarebbe risultata minore.
A metà degli anni ’80 le famiglie americane erano indebitate per circa l’80% del loro reddito. Oggi questa percentuale è pari al 115% per cento. Questo debito aggiuntivo ha spinto in alto i consumi e, con essi, la produzione. Lo stesso, si badi bene, è avvenuto in Europa, seppure ad un livello ridotto. Francia, Germania, ed Inghilterra, ma non l’Italia, presentano, oggi, un livello di indebitamento delle imprese e delle famiglie altrettanto elevato.
Ciò che, invece, è mancata è stata una politica dell’offerta altrettanto efficace. Ne è derivata una minore produttività, specie nel campo dei servizi, ed una crescita economica più contenuta.
Riuscirà Bush a salvare capre e cavoli: il valore del dollaro e la crescita economica? Risposta difficile. L’unico elemento certo è che l’intero sistema monetario internazionale è seduto su una Santa Barbara. Che può esplodere da un momento all’altro.
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