Il forte calo del valore del dollaro rischia di guastare il ritorno all’ottimismo dei mercati finanziari. Infatti, le cause del ribasso del biglietto verde sono note. In primo luogo, il disavanzo commerciale e delle partite correnti statunitense, che non è più compensato da un sufficiente afflusso di capitali esteri. In secondo luogo, la scelta politica delle autorità americane che oggi giustamente considerano il deprezzamento del dollaro un elemento di quel complesso di misure monetarie e fiscali tese a rilanciare la crescita dell’economia a stelle e strisce.
Alcuni dati possono essere utili per confermare queste tesi. Il disavanzo americano delle partite correnti è salito l’anno scorso a 500 miliardi di dollari (nel 1999 si aggirava ancora attorno ai 300 miliardi di dollari) e rappresenta oggi più del 5% del Pil statunitense. Negli anni Novanta il deficit dei conti con l’estero era stato finanziato senza alcuna difficoltà grazie all’afflusso di capitali stranieri negli Stati Uniti, a tal punto forte da spingere il biglietto verde al rialzo.
La situazione è radicalmente mutata dopo lo scoppio della bolla speculativa formatasi nella borsa americana. Infatti l’afflusso di capitali stranieri per acquistare azioni americane l’anno scorso si è dimezzato rispetto al 1999. In quell’anno, inoltre, gli investimenti diretti stranieri avevano determinato un afflusso netto di capitali negli Stati Uniti di circa 100 miliardi di dollari, mentre l’anno scorso si è verificato un deflusso netto di circa 100 miliardi di dollari. A non diminuire è stato unicamente il flusso di capitali verso gli Stati Uniti teso all’acquisto di obbligazioni statunitensi, ma anche questo flusso rischia ora di inaridirsi, poiché il differenziale dei tassi tra le due sponde dell’Atlantico gioca a favore del Vecchio Continente.
A ciò si aggiunge un crescente rischio di cambio accentuato dalla sempre più diffusa convinzione che il dollaro è destinato ad indebolirsi ulteriormente. D’altro canto, il deprezzamento del biglietto verde non è visto di cattivo occhio da parte delle autorità monetarie e politiche statunitensi. Infatti, come è stato sottolineato martedì scorso dalla Federal Reserve, l’economia americana non è ancora avviata sulla strada della ripresa, nonostante la politica monetaria, che, tra l’altro, ha fatto scendere i tassi dal 6,5% dell’inizio del 2001 all’attuale 1,25%, e nonostante la politica fiscale fortemente espansiva dell’Amministrazione Bush, che ha comportato la trasformazione dell’avanzo dei conti dello Stato federale di 236 miliardi di dollari, registrato nel 2000, in un disavanzo di 157 miliardi di dollari nel 2002, destinato a crescere ulteriormente quest’anno.
In questo contesto, il deprezzamento del dollaro è parte integrante di una politica di rilancio economico e soprattutto rappresenta una specie di polizza assicurativa contro il rischio di deflazione temuto dalla Federal Reserve, dovuto alla continua tendenza al ribasso del tasso di inflazione.
Se le cause della debolezza del dollaro sono chiare, è invece molto meno chiara la reazione delle borse europee e dei mercati obbligazionari all’accelerazione del movimento al ribasso del biglietto verde. Infatti, la perdita di valore del dollaro dovrebbe deprimere (e non spingere al rialzo, come sta succedendo, le borse europee) poiché riduce gli utili conseguiti dalle società del Vecchio Continente nell’area dollaro e perché esercita una pressione al ribasso sui prezzi dei loro prodotti (e quindi sui loro utili) sia sui mercati di esportazione sia sul mercato europeo. D’altro canto, il rialzo delle borse dovrebbe avere un influsso negativo sui mercati obbligazionari soprattutto su quello americano (invece sta accadendo il contrario).
È evidente che qualcuno si sbaglia. Molti analisti ritengono che a sbagliare siano i mercati obbligazionari, che, a loro giudizio, hanno corso troppo, spingendo i tassi a livelli talmente bassi da essere compatibili unicamente con la previsione di anni di crescita economica insoddisfacente. Ma molto probabilmente a sbagliare sono ancora le borse. Il motivo è presto spiegato. La bolla speculativa formatasi nelle borse negli anni Novanta non ha solo spinto gli indici e i prezzi delle singole azioni a livelli insostenibili, ma ha fornito i mezzi finanziari per il boom dell’economia americana, finanziando investimenti a costo zero, permettendo ad imprese e a famiglie di aumentare il loro indebitamento e permettendo agli Stati Uniti di attrarre quei capitali esteri necessari per finanziare il disavanzo commerciale e, quindi, per permettere a famiglie ed imprese americane di vivere al di sopra dei propri mezzi.
Ora l’economia americana non può più usufruire delle massicce dosi di ossigeno che prima forniva Wall Street, ma deve riassorbire gli eccessi (sovrainvestimenti, indebitamento eccessivo di società e famiglie) di quegli anni di euforia. Tra questi eccessi figura anche lo squilibrio dei conti con l’estero. Da qui la tendenza al ribasso del dollaro, che è destinata a protrarsi e a diventare un ulteriore fattore di frenata dell’economia mondiale. Infatti, i benefici commerciali americani sono destinati ad essere relativamente modesti, poiché il movimento al ribasso del dollaro viene seguito passo passo da molti partner commerciali degli Stati Uniti (in primis, i paesi asiatici) che hanno la loro valuta legata al dollaro. A farne le spese saranno invece soprattutto l’economia europea e quella giapponese, che però (crescendo già a un ritmo di poco superiore allo zero) non saranno in grado di assorbire una quantità maggiore di beni americani, a tal punto significativa da incidere sull’andamento dell’economia statunitense.
Se i benefici economici rischiano di non essere significativi, i rischi potrebbero essere dirompenti. Il comportamento dei mercati finanziari non può far escludere che il ribasso del dollaro si trasformi in una vera e propria caduta che avrebbe conseguenze negative anche per l’economia americana, poiché potrebbe provocare l’effetto indesiderato di produrre un rialzo dei tassi americani per attrarre i capitali stranieri necessari per finanziare il disavanzo dei conti con l’estero.
Come abbiamo sempre scritto, lo scoppio della bolla non è ancora terminato. All’appuntamento manca ancora il dollaro, la cui forza era una parte essenziale dell’euforia americana degli anni Novanta.
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