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DOLLARO AL RIALZO, ECCO QUANTO DURERA’

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori e clientela professionale ai sensi dell’allegato n.3 al reg. n.16190 della Consob. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

(WSI) – Dal 1971 il dollaro si è dimezzato ed è raddoppiato più volte. In particolare, dal luglio 2000 al luglio 2008 ha perso contro euro quasi metà del suo valore, passando da 0.82 a 1.60. E’ comprensibile che chi, non americano, si è tenuto titoli in dollari per tutti questi anni, sia impaziente di vedere finalmente la possibilità di un forte recupero.


Gli strategist di cambi, in questo momento, sono quasi tutti pro dollaro. In alcuni casi hanno buone argomentazioni, ma spesso si limitano a razionalizzare una tendenza già partita per conto suo. Più interessante, quindi, è andare a vedere che cosa dicono i più autorevoli e influenti tra gli accademici di mercato, se ci si passa la definizione, perché di solito sono meno tattici e più coriacei nelle loro convinzioni (anche perché non hanno una base di clientela che si rivolta loro contro se sbagliano previsione).

Senza nessuna pretesa di completezza ci pare interessante partire da Robert Mundell di Columbia. Il dollaro, a suo parere, ha ancora molta strada da percorrere e arriverà abbastanza rapidamente a 1.30. Lì rimarrà qualche tempo, per poi però tornare a indebolirsi. Mundell, canadese, è considerato uno dei padri teorici dell’euro.

Martin Feldstein di Harvard, il più influente di tutti nonché di fatto governatore ombra della Fed, sostiene da molti mesi che la crisi americana sarà molto lunga e che un dollaro in discesa sarà essenziale per bilanciare con le esportazioni al resto del mondo la caduta della domanda interna. A chi in questi mesi gli ha chiesto se la debolezza del dollaro da lui prevista e auspicata poteva essere limitata alle valute asiatiche, Feldstein ha sempre risposto in modo molto lineare che no, anche l’euro dovrà continuare a fare la sua parte e che l’Europa dovrà imparare ad abbandonare l’obiettivo del pareggio delle partite correnti e iniziare a vivere, come l’America, con un disavanzo, almeno per qualche tempo.

Feldstein, non turbato dal recupero del dollaro, ha ribadito nei giorni scorsi la sua idea. La forza del dollaro è solo temporanea. Più o meno sulla stessa posizione Allan Meltzer di Carnegie Mellon. Più sfumato Mohamed El-Erian di Pimco, che non è professore ma antropologicamente è come se lo fosse, che sostiene anche lui che la forza del dollaro è solo ciclica, ma con la precisazione che la prossima fase di debolezza sarà soprattutto contro l’Asia.

Concludiamo questo giro rapidissimo con Kenneth Rogoff di Harvard, che nei mesi scorsi, quando il cambio era a 1.50, aveva detto che si poteva andare a 1.60-1.65. Oggi Rogoff dice che il dollaro può ancora crollare. La sua visione di fondo è che l’America si trova nel bel mezzo di una classica crisi bancaria/immobiliare e per di più di gravità maggiore rispetto alla media storica delle crisi di questo tipo. La durata di queste crisi non è mai stata di meno di tre anni e ha sempre coinciso, tra l’altro, con un un cambio debolissimo per facilitare la ripresa.

A noi sembra di vedere alcune analogia tra la forza attuale del dollaro e quella che la valuta americana manifestò nel 2005. Quell’anno, dopo una lunga corsa da 0.82 a 1.36, l’euro fu costretto a chiedere una pausa all’America. Eurolandia ristagnava vicina alla crescita zero. La perdita di competitività era sembrata allora notevole, almeno per alcuni paesi, tra cui Francia e Italia. L’euro era partito da pochi anni e si temeva una perdita di consenso che infatti si manifestò in primavera con il “no” olandese e francese nei referendum sulla costituzione europea.

La correzione del cambio fu brusca (si approfittò delle vacanze di Capodanno) e fu evidentemente organizzata dalle banche centrali. La correzione non fu breve. Durò 11 mesi e portò a un arretramento dell’euro del 13 per cento (da 1.36 a 1.18). Finì quando si vide che l’industria tedesca aveva recuperato brillantemente terreno (in realtà non ne aveva mai perso molto) grazie a profonde ristrutturazioni e a delocalizzazioni in Asia e nell’est europeo.

Se la correzione in corso dovesse seguire le orme di quella del 2005 dovrebbe terminare nel giugno 2009 (11 mesi) e portare a un cambio di 1.39 (il 13 per cento in meno di 1.60). In realtà la violenza del movimento di queste settimane è stata ancora maggiore rispetto a quella del 2005. Analogo, invece, il coinvolgimento delle banche centrali. Era stato lo stesso Bernanke ad anticipare la correzione, auspicando un dollaro più forte poco prima dell’inversione di trend.

Sembra importante mantenere la distinzione tra gli aspetti ciclici e quelli strutturali. Ciclicamente la correzione dell’euro, che è in realtà un recupero del dollaro contro tutte le valute del mondo, ha spiegazioni convincenti.

1) Prende atto del fatto che nei sei mesi passati il mondo è andato per una strada diversa da quella che si era pensata. Si era infatti creduto a una recessione americana già da gennaio e a una forte tenuta di Europa e Giappone (per non parlare di Cina e India) e ci si è accorti a conti fatti che l’America è invece cresciuta a una velocità non disprezzabile mentre Europa e Giappone già in primavera si sono schiantati contro il muro della crescita zero. Quanto agli emergenti, l’India è stata la prima ad accusare problemi, seguita adesso dall’Asia del sud e del nord. Ultima la Cina, che comincia a presentare evidenti segni di rallentamento.

2) Dà un importante contributo al contenimento dell’inflazione. Si pensi al petrolio. C’è stata una correlazione inversa di uno a tre, in questi mesi, tra dollaro e petrolio. Per un indebolimento del dollaro dell’uno per cento c’era un rafforzamento del greggio del 3 per cento. Nulla di scientifico, per carità, ma grosso modo ha funzionato anche nella direzione inversa. La discesa del petrolio, misurato in dollari, ha già portato la benzina americana da 4.10 a 3.70-3.80 al gallone. Quanto all’Europa, poiché la discesa dell’euro è stata minore della discesa del greggio, il beneficio di una minore inflazione si è visto comunque, anche se verrà catturato dalle statistiche ufficiali con il consueto ritardo di qualche settimana.

3) Il contenimento dell’inflazione dà spazio alle banche centrali per ridurre i tassi o, quanto meno, per non alzarli. In Europa ci siamo tolti definitivamente il pensiero di un secondo rialzo dei tassi. Quanto al tagliarli, Weber dice non per quest’anno, che è un modo per dire che per l’inizio del 2009 se ne potrà parlare. In America si continua a parlare di un’exit strategy al rialzo per i tassi, ma la si colloca talmente in là nel tempo da renderla più che altro una dichiarazione di principio.

Rimane per contro poco convincende l’ipotesi, al momento del resto minoritaria, che la ripresa ciclica del dollaro si sovrapponga all’inizio della ripresa strutturale. E’ banale dire che, ogni giorno che passa, siamo sempre più vicini al momento della ripresa strutturale. E’ solo poco meno banale dire che il dollaro sempre più debole (fino a un mese fa) rendeva sempre più vicina la svolta strutturale. Il dollaro dello Zimbabwe, stampato giorno e notte, è sempre più debole senza che questo avvicini la svolta.

Più serio è il discorso sulla riduzione del disavanzo delle partite correnti americane, riduzione che sta finalmente prendendo velocità. Siamo però ancora lontani (siamo grosso modo a metà strada) dal livello del 3 per cento del Pil (il massimo era stato del 6.7) considerato sostenibile. Per arrivarci occorre ancora del tempo (da uno a due anni) e un prematuro forte recupero ciclico del dollaro sposterebbe in là il momento della svolta strutturale. C’è poi da ricordare che il miglioramento è dovuto alle maggiori esportazioni e alle minori importazioni. In caso di stagnazione globale le minori importazioni resteranno, ma le maggiori esportazioni diventeranno problematiche.

In pratica si può considerare non irrealistico un obiettivo di 1.40, ma da quel livello in giù le posizioni in dollari sarà bene riprendere gradualmente a coprirle. Forse già nel quarto trimestre i mercati torneranno a scoprire la debolezza americana. La crescita dovrebbe infatti continuare a rallentare, a rischio di diventare negativa tra fine anno e inizio 2009.

Venendo al quadro generale, accanto all’allargarsi del rallentamento globale e al proseguimento dei circoli viziosi legati alla riduzione generalizzata della leva finanziaria, si notano due fenomeni di reazione.

Il primo è l’incessante lavoro dei policy maker, cui va riconosciuto il prodigarsi in tutti i modi per il contenimento della crisi. Tutti i modi tranne uno, quello risolutivo, ovvero la creazione di Resolution Trust che separino gli asset malati da quelli sani, creando una o più bad bank e permettendo alla parte sana del sistema di non essere contagiata. Sembra di vedere un pronto soccorso in cui medici creativi, esperti e attenti fanno l’impossibile per tenere in vita il paziente in attesa che arrivi il chirurgo. Il chirurgo, ahinoi, arriverà però solo in primavera con l’insediamento del nuovo Congresso americano e del nuovo presidente.

Il secondo aspetto che dà qualche conforto è la resilienza dei mercati, che in questa fase hanno voglia di valorizzare parecchio le poche notizie positive, come il rallentamento della discesa dei prezzi delle case. Come ha scritto di recente Greenspan è molto importante, nei prossimi mesi, che le borse si tengano su in tutti i modi. Da questo dipende la possibilità per le banche di rifinanziare il debito in scadenza, dismettere ordinatamente una parte dell’attivo e, dove possibile, ricapitalizzarsi. Come dice Paul McCulley è una corsa contro il tempo. In attesa del chirurgo.

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