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(WSI) – Quello che serve in questo momento è un progetto bipartisan, trovare risposte a quattro, cinque priorità che non sono né di destra né di sinistra: sono del paessono il messaggio di fiducia necessario a tutti noi che vogliamo tornare a vincere.
Chi ha responsabilità se le assuma e faccia le scelte necessarie !
Le due frasi sono tratte dal discorso di Luca Montezemolo al convegno dei giovani imprenditori di Santa Margherita e cristallizzano in modo molto efficace la situazione nella quale ci troviamo. Peraltro i toni sono assai simili all’appello di pochi giorni fa del Governatore della Banca d’Italia: l’Italia ha saputo affrontare e superare periodi difficili nella sua storia, anche recente, grazie all’impegno dell’Amministrazione pubblica e delle Istituzioni, alle iniziative della classe imprenditoriale, alla convinta collaborazione delle forze sociali.
Il fatto che ci si avviasse verso una vera e propria recessione era chiaro da
almeno un paio di anni e solo chi non voleva vederlo poteva pensare a Pil in crescita, a recuperi miracolistici, a riprese micro e macro che non arriveranno ancora per un po’.
Il quadro internazionale infatti si sta offuscando anche perchè il deficit spending americano sta portando l’economia leader del mondo a livelli di indebitamento assolutamente insostenibili e le economie asiatiche hanno crescite che, in valori assoluti – cioè quelli che contano, a parte le percentuali ad effetto – sono ancora troppo leggere. Pertanto il dollaro non potrà che tornare ad indebolirsi ancora, la concorrenza dell’est sarà ogni giorno più agguerrita e le aziende italiane non potranno che soffrire ancor di più per sperare di sopravvivere. In questo contesto il problema non e’ più quello di inventare una ennesima finanziaria tappabuchi, ma quello di provare a fare ragionamenti un po’ più alti, strategici se si vogliono definirli tali, che siano in grado di consentire al nostro paese di avere la coscienza pulita per aver tentato in tutti i modi un grande rilancio. Dipenderà poi dalle modalità di attuazione se il rilancio ci potrà essere o meno. Nel seguito si cerca di dare un seppur minimo contributo al dibattito, con dieci semplici suggerimenti, dieci proposte che ovviamente vanno viste nella loro globalità, non come elementi singoli di progetti separati o slegati. Come insegna la ragioneria per avviare un progetto, in economia, si deve partire dal prospetto fonti e impieghi: cioè da dove ricavo i soldi e dove li metto. Partiamo da dove si possono – a nostro avviso – prendere le risorse finanziarie per consentire al paese quel rilancio così importante e necessario, ma in premessa sottolineiamo che è assolutamente indispensabile concepire la prima e grande riforma di cui il paese ha bisogno.
1 – Una legge organica per le liberalizzazioni
Come ormai sostenuto ed auspicato da molti, l’uscita dalla malattia italiana non può non partire da una legge quadro, da un input non solo normativo, ma possibilmente di respiro “culturale” che e’ necessario come l’aria e l’acqua all’economia italiana: una grande legge di impulso a tutte le possibili liberalizzazioni. Non e’ semplice elencare tutte le angolature che tale legge dovrebbe riguardare, per cui ci limitiamo ad esemplificare le cose più evidenti e macroscopiche. Noi abbiamo ad esempio l’energia più cara d’Europa, e notevolmente più cara, e tale aspetto mina pesantemente la competitività delle nostre imprese, drena soldi dai portafogli dei cittadini per ingrassare società in gran parte parapubbliche e spesso meno efficienti dei concorrenti esteri. Il commercio e la produzione di energia e del gas vanno immediatamente liberalizzati, i contratti “Cip 6” vanno ridimensionati e dove possibile accorciati in termini temporali e soprattutto l’investimento in fonti energetiche va fortemente agevolato, se non altro in termini di iter autorizzativo. Andando nel dettaglio, ma sono dettagli che pesano, non possiamo non tralasciare che il consumatore finale italiano paga l’energia almeno il venti per cento in più del consumatore domestico europeo, ma soprattutto i consumatori industriali pagano l’energia il trentasette per cento in più della media dei concorrenti dei venticinque paesi europei. Se poi si considera che le tariffe del trasporto dell’energia sono in molti casi sensibilmente inferiori a quelle di altri paesi, ne emerge che per un industriale del nostro paese il maggior costo tende al cinquanta per cento. Non è un caso infatti che per l’Italia l’energia importata costi il trenta-quaranta per cento in meno del costo dell’energia prodotta in loco. Peraltro il fatto che il settantasette per cento dell’energia importata è destinata all’Acquirente Unico e non al mercato conferma come ci sia in effetti una sorta di politica contro la concorrenzialità del mercato. Se poi si considera che una buona parte degli impianti di generazione di energia è obsoleta e che circa il settanta per cento dell’offerta è costituita da energia termoelettrica, cioè basata su gas e petrolio, si comprende la pericolosità della trappola nella quale siamo incastrati. Ma il quadro normativo non è confuso ed antimercato solo nell’ambito dell’energia, perché sono purtroppo assai numerosi i comparti nei quali brilliamo per lentezza, farraginosità e protezione delle rendite invece che promozione della concorrenza a favore di cittadini ed imprese; pertanto le liberalizzazioni dovranno possibilmente riguardare tutta la macchina della burocrazia, dall’abolizione di molte altre autorizzazioni da parte di uffici pubblici, al ruolo e alle tariffe dei notai e degli avvocati, alle modalità di ottenimento delle licenze e dei permessi di ogni genere e tipo, che ancora richiedono percorsi lunghissimi ed antistorici. Nei casi delle licenze, edilizie ad esempio, si dovrebbe prevedere che procedure abbreviate, tempi ravvicinati quanto più possibile, lo stesso meccanismo del silenzio assenso, siano sempre applicabili almeno in caso di richieste di concessioni di natura commerciale: stabilimenti industriali, siti per artigiani, negozi, alberghi, siti per uffici, dovrebbero avere – come già accade non solo in Cina ma ormai in quasi tutta l’Europa dell’est in cui tanta parte del tessuto industriale italiano sta delocalizzando – la matematica certezza che, se le pratiche di richiesta di concessione edilizia vengono esperite correttamente, in un massimo di tre mesi si possono iniziare i lavori. Non è infatti possibile che, anche a parte i problemi strutturali inerenti il costo del lavoro, la carenza di infrastrutture e tutto il non facile contesto in cui opera, la maggiore difficoltà operativa di un imprenditore italiano intenzionato ad effettuare investimenti, si concretizzi nelle mille e spesso assurde perplessità e lentezze di tutti coloro che, invece di spianargli la strada, fanno di tutto per dissuaderlo con problemi di burocrazia, di ambiente, di compliance; alla fine tutto ciò non è altro che la semplice giustificazione del potere delle controparti pubbliche che ognuno di noi ha.
2 – Collocare in borsa le partecipazioni bancarie delle fondazioni
Venendo a temi più direttamente economici e soprattutto a misure che – in presenza di una chiara volontà politica – si possano immediatamente attivare con un risultato di grande rilievo in merito a dove prendere le risorse per finanziare un programma di sviluppo di ampio respiro, e’ chiaro che una delle grandi riserve meno produttive del paese sta indubbiamente nelle partecipazioni bancarie delle fondazioni. Su tali partecipazioni si potrebbe agevolmente agire in due sensi: per le banche già quotate in borsa si dovrebbe semplicemente procedere promuovendo dei consorzi di collocamento – sia al pubblico, cercando peraltro di privilegiare i cittadini del territorio di riferimento di ogni fondazione, sia ad istituzioni – che classino tali titoli. L’andamento dei titoli bancari italiani negli ultimi due anni, ma anche negli ultimissimi giorni, dimostra il livello di appetito che esiste sul mercato borsistico per tali tipi di azioni. Per quanto riguarda le banche e le casse di risparmio non già quotate bisognerebbe invece attuare una procedura o di collocamento in borsa d’ufficio, tanto il livello di trasparenza, governance e soprattutto adeguamento formale ai requisiti per la quotazione è già elevatissimo, oppure di corsia preferenziale in modo tale da poterle ammettere alla quotazione in un periodo massimo di sei/nove mesi. Anche di queste il collocamento potrebbe essere molto agevole e rapido. Non solo ma l’effetto contendibilità potrebbe anche dare ottime sorprese dal punto di vista del pricing dei collocamenti stessi. L’efficacia di un simile progetto è funzione del livello di “imposizione” che il legislatore e le forze politiche in generale sono in grado di mettere al sistema; chi ha memoria ricorderà il decreto Amato-Guarino che diede avvio alle privatizzazioni in Italia e converrà che a volte le cose sono più semplici di quanto non si possa immaginare a priori; purchè esista la giusta volonta’ e determinazione politica, che probabilmente dovrà essere trasversale. L’effetto transitorio di avvicinamento delle Casse di Risparmio verso il mercato può infatti essere considerato terminato, ormai le partecipazioni bancarie rappresentano solo il trenta per cento circa del patrimonio netto delle fondazioni e delle ottantanove iniziali oggi quattordici non hanno più partecipazioni bancarie, mentre cinquantotto detengono nelle rispettive banche quote di minoranza. E’ assai difficile calcolare con esattezza il controvalore di simili collocamenti, pero’ e’ sufficiente analizzare i numerosi recenti studi sul patrimonio delle fondazioni stesse per ritenere ragionevole che l’introito globale per i cedenti possa essere attorno ai cinquanta miliardi di euro. A questa proposta, gia’ formulata da tempo, e’ stato confutato che i proventi andrebbero alle fondazioni stesse, con un enorme problema di utilizzo essendo considerate queste realtà di stampo privatistico. Non volendo entrare nel merito della natura di simili realtà, ma concentrandoci sull’obiettivo da raggiungere, una soluzione potrebbe essere quella di imporre alle fondazioni di mettere tali proventi come capitale di una costituenda agenzia per lo sviluppo e le infrastrutture, governata in modo da poterle utilizzare per il progetto di rilancio dell’economia italiana nel seguito descritto. Una seconda modalità potrebbe essere quella di “convincere” le fondazioni a conferire le loro partecipazioni bancarie alla Cassa Depositi e Prestiti e ciò non solo come stadio intermedio prima del collocamento, ma anche per poter sostituire all’interno dei bilanci delle fondazioni stesse le quote nelle banche con azioni della CDP. In fondo chi meglio della CDP può rappresentare l’agenzia per lo sviluppo del paese ? Nasceranno le consuete polemiche sulla nascita di un nuovo IRI, però se le finalità saranno chiare da subito ed i tempi di liquidazione del patrimonio saranno quelli necessari data la situazione, bisogna aver la forza di fronteggiare critiche di ogni tipo. Altre modalità tecniche sono certamente possibili, ma il problema maggiore è chiaramente politico, per cui il vero tema è quello di vedere se esiste una forza – a livello di governo e di parlamento – che ha la volontà di incidere su un simile “tabu”. Come recentemente auspicato anche dal Governatore della banca d’Italia in sede di Considerazioni Finali, sono questi i momenti in cui si deve dare fondo a tutte le risorse disponibili per cui non è certo il caso di pensare a soluzioni nella direzione della “tosatura” ulteriore di cittadini o imprese, specie quando simili tesori sono lì, a disposizione di tutti.
3 – Collocare in borsa il capitale delle aziende dei servizi pubblici
Perchè l’entità del rilancio all’economia italiana sia – almeno sulla carta – realmente strutturale, gli importi ricavabili dalle operazioni di cui sopra non sono comunque sufficienti. Esiste però un altro serbatoio di risorse molto mal utilizzato da governi centrali ma soprattutto locali: quello delle aziende erogatrici di servizi pubblici, le ex municipalizzate. In questo contesto vanno chiaramente fatti dei distinguo di tipo settoriale perchè i trasporti quasi ovunque continuano a conseguire perdite, ma i settori dell’energia, del gas, dell’acqua, delle autostrade, degli enti fieristici e in qualche caso dei rifiuti guadagnano o possono facilmente guadagnare se decentemente gestiti. Anche qui si deve cercare di traferire rapidamente al mercato risorse nascoste e ciò è possibile con l’immediato collocamento delle quote detenute da comuni, province e regioni per le già quotate e quotazione d’ufficio o corsia preferenziale per le altre. Riguardo all’appetibilità sul pubblico sia privato che istituzionale anche di tali titoli non si dovrebbero nutrire dubbi: tutte le utilities sono andate a ruba negli ultimi anno e non ci sono ragioni perchè ciò non sia ripetibile, almeno nel breve termine. Anche in questo caso sarebbe estremamente interessante ed assai probabilmente molto produttivo varare progetti volti a favorire l’azionariato locale, i dipendenti, gli stakeholders di ogni azienda in modo tale da fare quanto possibile per premiare le peculiarità territoriali di ogni società. In termini di introito e’ stimabile che si possano raccogliere trenta-quaranta miliardi di euro, anche se effettivamente i valori dovrebbero essere visti alla luce degli effetti economici dei provvedimenti di liberalizzazione di cui al punto 1. Di recente si è dibattuto sul fatto che molte aziende pubbliche erogatrici di servizi siano ancora piccole per competere sui rispettivi mercati; in quest’ottica si dovrebbe valutare se intraprendere un processo di fusione tra aziende prima di avviarne la quotazione in borsa. E’ un tema forte ed ha un solido fondamento, però perché non far quotare subito tali società, lasciare al mercato la totalità del capitale di ognuna e fare in modo che le aggregazioni avvengano in modo libero, aperto, con il confronto della borsa, dei rispettivi management e organici ? Potrebbe essere una bellissima gara di efficienza, di prontezza e di modernità. Questi ultimi giorni confermano la validità non solo economica, ma anche strategica di una simile politica: l’operazione EDF-Edison infatti mai sarebbe stata possibile senza un AEM quotata in borsa ed il poter far partecipare aziende nazionali ad un processo internazionale di globalizzazione è un elemento da non trascurare. Anche questa proposta è stata a volte criticata perché – se non ben armonizzata con altri provvedimenti – farebbe confluire risorse in sedi locali e non a livello centrale dove esiste il massimo bisogno di finanza; è però banale, se ci si pone nell’ottica dei policy makers, trovare il modo o di diminuire le risorse destinate ad enti locali o di far prima affluire a livello centrale gli introiti delle privatizzazioni per poi procedere a riorientarli nel modo più congeniale all’intero sistema. In un paese un po’ più orientato al mercato del nostro – ma le speranze potrebbero non essere tutte perdute ! – si potrebbe anche utilizzare tale sistema di trasferimenti per costruire degli incentivi agli enti locali per fare di più, per fare meglio, per mettere regioni, province e comuni più efficienti in condizione di premiare i rispettivi cittadini nel caso in cui i progetti di privatizzazione avessero migliori risultati.
4 – Collocare immediatamente sul mercato Le residue quote di Eni, Enel, Finmeccanica, Snam Rete Gas e Terna.
La terza – semplicissima – modalità di incremento straordinario degli introiti per lo stato potrebbe essere quella di collocare immediatamente sul mercato le residue quote (detenute direttamente e/o tramite la Cassa Depositi e Prestiti) di Eni, Enel, Finmeccanica, Snam Rete Gas e Terna, gruppi già quotati e ben noti agli investitori, come peraltro in atto da tempo e come anche l’attuale governo ha di recente deciso di riprendere a fare. A fronte di tali collocamenti i ricavi potrebbero essere molto ingenti, i tempi assai rapidi e gli effetti in termini di finanza pubblica degli importi relativi, facilmente ricavabili: circa cinquanta miliardi di euro. Il recente studio “Piano strategico delle Privatizzazioni” di KPMG-Patrimonio dello Stato SpA conferma la fattibilità di tali operazioni, anche se cita importi più modesti e pare suggerire una graduazione delle dismissioni in un arco temporale che finisce nel 2008; in realtà il coraggio che deve discendere dall’attuale necessità porterebbe a suggerire, proprio per simili entità già molto apprezzate dai mercati, di accelerarne il collocamento. La cosa che forse si potrebbe valutare prima dei collocamenti delle azioni delle società capogruppo, è la scissione delle varie controllate e sub-holding in grado di avere un valore anche indipendentemente dalla presenza nell’ambito dell’ente controllante. Si pensi a Snam Rete Gas, Italgas, Saipem, Agip solo per citare alcune delle maggiori controllate di Eni, oppure alla quota mantenuta in Wind-Orascom da Enel od altre operazioni “Genco” per l’ente elettrico, solo per fare qualche esempio. Terna e Finemeccanica poi detengono ancora quote di rilievo di STMicroelectroncis. Da sempre le operazioni di scissione creano valore per gli azionisti, nella fattispecie si potrebbe dar vita ad altre società quotate in borsa, indipendenti, “public” in termini di azionariato e pertanto anch’esse in grado di contribuire positivamente al processo. Il rischio di tale operazione è che consenta di rinviare le privatizzazioni complete delle società- madre. A chi obietta che, per ragioni di strategicita’ delle riserve petrolifere, di tutela della difesa, di tutela del consumatore, ecc. tale ipotesi non dovrebbe nemmeno essere presa in considerazione si può opporre che un simile programma di riconversione dell’intero sistema industriale dovrebbe ampiamente giustificare dei sacrifici. Anzi le non certo eccelse efficienze nel settore dell’energia (in cui la sola Enel controlla ancora circa il cinquanta per cento del mercato) sembrano dimostrare che una proprietà più libera dai lacci e lacciuoli dell’azionariato pubblico può solo far ottenere vantaggi all’utenza ed all’economia italiana in generale. Una legge di liberalizzazione ben concepita, assieme al necessario impulso per un migliore funzionamento delle authority di settore potrebbe portare al sistema Italia in generale e quel che piu’ conta al singolo cittadino consumatore ed alle imprese utilizzatrici quelle tutele di cui ha bisogno. Infine la recentissima posizione degli investitori istituzionali in merito alle nomine all’Eni suona come un ulteriore, chiaro avvertimento al Governo in tema di modalità di governance.
5 – Altre dismissioni
Un introito in termini di valore assoluto inferiore ai punti precedenti lo si otterrebbe mediante la dismissione a privati o in borsa di altre entita’ pubbliche: ci si può riferire ad esempio alle Poste Italiane (valutabili, al 100%, da alcune recenti stime ed in linea con quanto riportato dallo studio KPMG-Patrimonio, attorno a nove miliardi di euro), la Rai (di cui andrebbe collocata la maggioranza o più probabilmente la totalità che certamente ha un valore non inferiore ai cinque miliardi di euro), alla Tirrenia di Navigazione, alla Fincantieri, al Poligrafico dello Stato, al Coni (ente notoriamente dotato di un patrimonio immobiliare cospicuo, al Touring Club, a Cinecitta’, ad altre componenti immobiliari del patrimonio pubblico centrale locale, solo per fare qualche esempio. Sono enti per i quali da tempo esistono studi di fattibilita’ e valorizzazioni per la cessione a terzi, pero’ l’inerzia governativa non ha mai dato quella spinta che sarebbe necessaria. Lo stesso studio, già citato, ne propone la dismisssione, per cui è solo necessario agire, nell’interesse del paese. Tra l’altro alcune di tali partecipazioni sono detenute tramite Fintecna, un’ex subholding dell’Iri, che oltre ad avere già delle cospicue liquidità, potrebbe anch’essa fungere da agenzia per il collocamento e, se del caso per lo sviluppo del programma di rilancio del paese. Se era difficile ipotizzare l’ammontare di introiti ricavabili dalle operazioni elencate ai punti precedenti, è ancor più evidente come risulti arduo quantificare l’effetto di quest’ultima categoria di dismissioni; dipenderà dalla loro quantità, dalla tipologia di intervento, dal contorno normativo che le caratterizzerà, però è certo che qualche decina di miliardi di euro è certamente ricavabile da tali operazioni. Peraltro, come si e’ visto in passato, l’effetto positivo di operazioni di dismissione non va solo visto in termini di introito, ma di contributo all’efficienza del sistema, di aiuto al verificarsi di eventi utili per la progressiva apertura alla competizione internazionale. Non si può in questa sede entrare nel dettaglio dei valori immobiliari ricavabili da operazioni di dismissione e/o di cartolarizzazioni, però è evidente che la più volte annunciata privatizzazione di cespiti posseduti da enti pubblici potrebbe dare un ulteriore notevolissimo contributo alle risorse da utilizzarsi nel programma di rilancio del paese; vale solo la pena di ricordare che anche negli ultimi anni la Camera dei Deputati, il Senato, alcune Regioni e Comuni ed altre istituzioni centrali e locali hanno continuato ad acquistare immobili, anche a prezzi molto elevati. E questo non pare un gran segno di consapevolezza della situazione finanziaria dell’amministrazione pubblica.
* * * L’insieme delle operazioni di cui ai quattro punti precedenti e’ in grado di assicurare introiti al sistema allargato della finanza pubblica per un importo stimabile attorno ai 200 miliardi di euro. La cifra si commenta da sola. Riguardo ai tempi di realizzo e’ ragionevole ritenere che in 12-18, massimo 24 mesi il mercato finanziario italiano (unito all’assorbimento internazionale che molta parte di tali titoli giustificherebbe) possa tranquillamente digerire un simile boccone. In fondo se si considera che ciò causerebbe un aumento del venticinque – trenta per cento dell’intera capitalizzazione borsistica italiana, non pare esistere un problema di classamento. Anzi riusciremmo almeno in parte a risalire quella china che da anni ci caratterizza in termini di rapporto tra capitalizzazione borsistica ed indicatori della ricchezza o del prodotto del Paese. * * *
Passiamo agli utilizzi di tali risorse.
6 – Il primo e più importante utilizzo va visto in una massiccia fiscalizzazione degli oneri sociali delle imprese.
Non c’è infatti alcun dubbio sul fatto che il vero grande malato del momento in Italia siano le società industriale e commerciali e sono loro in primis che vanno aiutate. E’ altrettanto noto che il maggiore gap quantitativo che ogni imprenditore del nostro paese deve quotidianamente affrontare riguarda il costo del lavoro, assolutamente sproporzionato rispetto al livello di competitività del sistema paese. Solo per dare qualche elemento quantitativo degli effetti che il costo del lavoro ha contribuito a dare: nel 2004 il fatturato estero delle imprese italiane è stato inferiore a quello del 2000, la nostra quota sul mercato mondiale è passata dal 3,5% del 2000 al 2,9% del 2004; la produttività oraria dei settori industriali commerciali e dei servizi, che era cresciuta tra il 1993 ed il 2003 dell’1,3% all’anno, nel periodo 2000-2003 è cresciuta dello 0,2%. Tutta l’Europa ha fatto meglio di noi, per cui la causa non è l’euro o la Cina, come si sente troppo spesso dire in giro.
La causa siamo noi.
Pertanto se non il migliore, di certo il primo investimento che uno Stato può effettuare è proprio quello di abbassare il costo del lavoro alle imprese facendosi carico di una parte cospicua di quegli oneri che come tutti sappiamo non corrispondono ad altrettanti servizi. A solo titolo di esempio si potrebbe prevedere per tutte le imprese una fiscalizzazione del 33% degli attuali oneri sociali, percentuale elevabile al 50% per le imprese che con tale risparmio effettuano investimenti in macchinari, attrezzature, ricerca, sviluppo, formazione. Ciò dovrebbe però avvenire – almeno inizialmente – per un periodo di tempo ben definito e ciò sia per poter rientrare all’interno delle risorse ricavate dalle operazioni straordinarie e per definizione una tantum di cui si è già trattato, sia per poter dare quel necessario incentivo di recupero del ciclo economico; è però auspicabile che una simile misura possa da un lato concorrere a riassorbire nel mercato ufficiale del lavoro tanti dipendenti tuttora “in nero” sia a dare un adeguato impulso ad un incremento strutturale dell’occupazione. Ovviamente effetti strutturali sul sistema occupazionale consentiranno di estendere temporalmente gli effetti della proposta fiscalizzazione, semmai in parte e semmai sempre calibrata per le sole imprese che continuano ad investire. Tra gli investimenti da considerarsi utilizzabili per “extrasconti” in termini di fiscalizzazione non a caso è stato inserito un cenno a ricerca, sviluppo, formazione, perché è assolutamente evidente che l’Italia potrà recuperare la propria posizione nell’ambito del sistema industriale internazionale se e solo se manterrà e possibilmente incrementerà la propria capacità di innovazione. E’ chiaro che i risparmi per le singole imprese non potranno essere sufficienti a sanare il gap di costi che si riscontra rispetto ai paesi che stanno diventando i veri competitor dell’Italia, pero’ si tratterebbe di un aiuto ben tangibile e chi avrà la volontà di intraprendere una strada di crescita e di sviluppo avrà molte facilitazioni. In fondo anche l’Italia di oggi continua ad avere punte di eccellenza industriale e commerciale. E’ peraltro evidente che tale provvedimento dovrebbe essere adeguatamente coordinato con la progressiva abolizione dell’Irap.
7 – Uno dei gap storici del sistema Italia e’ quello delle infrastrutture, per cui un secondo ed altrettanto forte intervento andrebbe attuato in tale direzione.
Il modo più semplice, avendo i mezzi a disposizione, e’ quello di proporre da una parte contributi a fondo perduto per chi costruisce, ingrandisce o ammoderna ponti, porti, strade, aeroporti, ospedali, scuole, ecc e, dall’altra, stabilire dei percorsi autorizzativi rapidissimi e privilegiati. E’ noto infatti come in tale ambito siano i problemi burocratici più che i soldi a bloccare o almeno a rallentare le opere ed e’ un assurdo che la Pedemontana, la Variante di valico, la Livorno Civitavecchia, i lavori sulla Salerno Reggio Calabria, solo per citarne alcune delle più note, languano da anni. Con l’incentivo che il contributo statale a fondo perduto non si ottiene se l’opera non parte e non marcia a certi ritmi o con la semplice possibilità data ad enti locali di utilizzare in modo efficiente le risorse ricavate dalle dismissioni di cui punti precedenti, probabilmente molto si ottiene. Comunque il gioco vale la candela. Riguardo agli aspetti ambientali che tanto incidono in simili opere in quanto causa incertezze, ritardi, interdizioni, andrebbe immediatamente creata un’authority ad hoc che, sulla base di indiscutibili parametri verificati a livello internazionale, stabilisce cosa effettivamente costituisce grave ed irreparabile danno in termini ambientale e cosa invece si può fare. Un programma di investimenti in infrastrutture può – come ben noto – dare un’ulteriore scossa al sistema paese, però i lavori devono partire e marciare secondo le migliori tabelle di marcia possibile, le amministrazioni pubbliche devono imparare – per il bene supremo dei loro cittadini – ad autolimitarsi ed in particolare deve essere dato ogni possibile impulso alle operazioni da effettuarsi con il contributo di privati. In quest’ambito è evidente come l’orografia del territorio nazionale si presti per un notevole sviluppo dei porti, commerciali e turistici, di cui abbiamo un gradissimo bisogno. Non solo ma esistono operatori che si sono già in varie occasioni dichiarati disponibili a co-investire risorse anche ingenti in queste direzioni. Il gap di questo genere di infrastrutture pesa infatti moltissimo a livello commerciale sulle strade ed autostrade del nostro paese e la stessa politica – sostenuta anche a livello europeo – delle cosiddette “autostrade del mare” deve essere accelerata con investimenti adeguati. Dal punto di vista dei porti turistici invece è possibile costruire una rete di opere collegate operativamente e concepite in modo da costituire un incentivo a sviluppare il turismo nautico, in enorme sviluppo nel mondo anche in zone prive del retroterra culturale che l’Italia è in grado di offrire. Le recenti iniziative proposte dall’Ucina in termini di agevolazioni fiscali e di attrazione di investimenti dall’estero sulla nautica italiana sono perfettamente coerenti con una simile politica. In tutto il mondo è stato da tempo rilevato come lo sviluppo intelligente dei porti sia uno dei più efficaci generatori di indotto per qualsiasi economia; pensiamo al fatto che noi abbiamo una costa estesissima ed una stagione favorevole dal punto di vista climatico che, per oltre il sessanta per cento delle nostre coste, dura otto/nove mesi. Discorso assai simile andrebbe fatto per gli aeroporti, di cui l’Italia oggi è straordinariamente carente e che anch’essi sono da una parte in grado di attrarre ingenti risorse finanziarie private e, dall’altra, generano un indotto molto interessante, rapido e soprattutto strutturale.
8 – Provvedimenti di carattere fiscale Un programma del genere non puo’ non essere accompagnato da provvedimenti di carattere fiscale, il primo dei quali, anche per rendere piu’ agevole il collocamento delle azioni di cui ai punti 2, 3, 4 e 5 di cui sopra deve essere una sorta di legge Monory cioe’ una norma che preveda un regime fiscale agevolato sia per le societa’ neo-quotate sia per i risparmiatori che sottoscriveranno in sede di Ipo (Initial Public Offering) i relativi titoli. Peraltro, anche senza scomodare la legge Monory, va osservato che da pochi anni, a Londra, sono state introdotte agevolazioni per gli investitori – privati e trust – che acquistano azioni di società quotate all’ A.I.M. , il segmento del London Stock Exchange che comprende circa 1.500 società di piccola e media capitalizzazione. E che si sta sviluppando benissimo. In quel caso la tassazione dei capital gain ottenuti da chi detiene le azioni per un periodo superiore ai due anni è di circa il 10%; nel nostro caso, ispirandoci al provvedimento francese, si dovrebbero inserire minori tassazioni – sempre per un periodo limitato successivo al collocamento sul mercato – per il reddito delle società neo-quotate o per le quali viene effettuato un collocamento di particolare rilievo nell’ambito dell’intero programma. In questo modo il livello di attenzione e di interesse per le nuove azioni offerte sarà massimo e forte la propensione ad una detenzione prolungata. In questo contesto non si può non citare una recente affermazione di Massimo Capuano, Amministratore Delegato di Borsa Italiana, che ha ancora una volta sostenuto che la quotazione in borsa di tutte le società con le caratteristiche giuste per quotarsi determinerebbe di per se un incremento del Pil stimabile tra lo 0,5 e lo 0,9%; sarebbe un fatto straordinario e le sole nuove quotazioni di cui si è fatto cenno in precedenza genererebbero un forte incremento di potenzialità del sistema. Un secondo provvedimento di carattere fiscale dovrebbe riguardare la reintroduzione della possibilità di effettuare ammortamenti anticipati in franchigia d’imposta nel caso in cui una società investa in immobilizzazioni materiali, ma anche in ricerca, sviluppo prodotti, formazione, innovazione. In tal modo l’ulteriore incentivo ad investire da parte delle imprese sarà notevole e si dovrebbe auspicabilmente sbloccare la situazione di stasi che dura da anni. Chiaramente tale provvedimento andrebbe molto ben calibrato a livello sia settoriale, sia dimensionale, sia di trend temporale, per non essere un semplice riduttore di gettito; è però certo che sull’importanza della ricerca e dell’innovazione non solo Montezemolo, Fazio, ma anche il Capo dello Stato stanno insistendo molto, per cui qualcosa di veramente determinante in termini di impulso va fatto. E rapidamente. Un terzo provvedimento in materia fiscale dovrebbe essere la diretta conseguenza del nanismo industriale che ci caratterizza e pertanto riguardare l’introduzione di forme come l’ammortamento della differenza di fusione tra due società. Per evitare speculazioni su tale tema da parte di gruppi articolati di imprese e soprattutto per mirare ad ottenere il fine vero dell’operazione – cioè l’aggregazione agevolata di aziende non in grado di competere ad armi pari sullo scenario internazionale – si potrebbe prevedere che tale norma si applichi solo a società con meno di cento o duecento dipendenti. Su questo le più recenti analisi di Confindustria potrebbero rappresentare un utilissimo orientamento. Questa possibilità, che peraltro esisteva fino a pochi anni fa, consentirebbe a chi delibera una fusione di dedurre fiscalmente in un periodo da stabilirsi in funzione della normativa contabile internazionale, il goodwill emergente dall’operazione, con un vantaggio economico tangibile e rilevante per chi partecipa. Non e’ facile ipotizzare il livello di adesione ad una simile facilitazione pero’ e’ certo che chi dovesse prendere in esame l’opportunità di una fusione avrebbe un grande e tangibile vantaggio in più. Ed il sistema industriale ne avrebbe solo dei forti benefici. E’ logico che anche tali provvedimenti dovrebbero coordinarsi con riordino della tassazione delle imprese già allo studio. In termini di perdita potenziale di gettito a seguito dell’eventuale attuazione di quanto proposto, il calcolo è estremamente complesso anche perché lo stesso dipende dalle modalità di applicazione e di accoglimento dei singoli suggerimenti. Una perdita di quindici o anche venti miliardi di euro all’anno, nei prossimi tre anni, potrebbe come visto essere agevolmente fronteggiata con una parte degli introiti ipotizzati ma, per contro, darebbe una quantità di ossigeno al sistema delle imprese come mai nella storia recente del nostro paese si è verificato.
9 –PROJECT FINANCING
Una norma che in Italia è carente e che oggi più che mai sarebbe necessario migliorare molto e’ quella relativa alla disciplina del project financing. Con la quantità di opere da realizzare, con il deficit infrastrutturale ed energetico che abbiamo, ma soprattutto con la carenza strutturale di risorse che caratterizza il nostro paese e’ evidente che non solo i già citati contributi a fondo perduto per opere infrastrutturali, ma anche un forte stimolo del project financing è assolutamente necessario. Un primo provvedimento dovrebbe riguardare l’entità di obbligazioni emettibili da un ente che promuove un’operazione di project financing; gli attuali limiti andrebbero infatti estesi ed adattati vista la limitata rischiosità di simili progetti. Si potrebbe inoltre promuovere l’attività di agenzie di rating e di compagnie di assicurazione (monoline insurance) specializzate, che consentano a determinati emittenti o addirittura progetti di accedere all’emissione di obbligazioni con una sorta di “garanzia” speciale e/o di rating riclassificato verso l’alto. Un’ulteriore facilitazione potrebbe essere quella di rendere a tassazione agevolata gli interessi rivenienti da simili progetti, semmai solo o in preferenza per fondazioni, fondi pensione od altri investitori particolari, in modo tale da rendere particolarmente attraenti simili operazioni, anche a prescindere dalle forme di rating o di garanzia. In questo contesto si dovrebbe anche prevedere – in accordo con la Banca d’Italia – di dare vita a criteri che consentano alle banche di avere un trattamento patrimoniale agevolato per gli impieghi in operazioni di project financing. E’ di questi giorni il dato delle gare di project financing che vede il primo quadrimestre 2005 con importi superiori (1,5 miliardi di euro) all’intero ammontare annuale di ognuno dei tre anni precedenti per cui l’esigenza è non solo ben chiara, ma si notano forti accelerazioni nel ricorso a tale forme. Anche qui però la normativa è confusa, le possibilità di ricorso ai fondi europei ancora limitata per cui occorre un forte “colpo di reni”. Dal punto di vista quantitativo, a meno che non si preveda un contributo statale in conto interessi, non è ipotizzabile un onere particolarmente gravoso, per cui l’operazione è sostanzialmente indolore; è però evidente che qualora dalle operazioni sopra citate si intravedesse la possibilità di contribuire tangibilmente ad opere finanziate con la formula del project financing, ciò costituirebbe un ulteriore plus del programma di rilancio. Una politica infrastrutturale intelligente e lungimirante non può infatti non prevedere un’attenta calibratura di contributi a fondo perduto e di contributi sotto altre forme per singole opere; ciò sempre nell’ottica di incentivare l’investimento dei privati ed il contributo del sistema bancario e degli investitori professionali.
10 – Una riforma radicale delle dogane
Un ultimo punto dolente del nostro sistema commerciale è quello delle dogane; non funzionano nel modo giusto in molte località, non costituiscono quell’aiuto al sistema industriale di cui si sente il bisogno, presentano delle forti difformità in termini di servizio erogato tra singoli siti e vanno pertanto al più presto riformate. Se è il caso di procedere ad una vera e propria privatizzazione del sistema doganale italiano è difficile sostenerlo, anche perché sarebbe un’operazione ben più articolata e complessa delle dismissioni suggerite in precedenza. Certamente la recente iniziativa di alcune imprese dell’Emilia Romagna e la direzione regionale delle Dogane che riguarda da una parte l’attivazione di procedure di autocertificazione e, dall’altra, la possibilità di poter fare dogana presso i propri stabilimenti per evitare passaggi fisici, incrementi di stock, ecc. fa molto riflettere. Fino ad ora solo le imprese di maggiori dimensioni erano autorizzate ad avere presso i propri stabilimenti degli uffici doganali, però è evidente quanto possa diventare rilevante l’handicap dovuto agli immobilizzi di materiali ed ai tempi e trasporti connessi con un sistema doganale non efficiente. Peraltro anche in Piemonte alcune aziende tra cui Ferrero, Martini & Rossi, Cinzano e Barbero hanno preso una forte posizione nei confronti del sistema doganale proponendo addirittura di farsi carico degli oneri degli straordinari dei dipendenti delle dogane, pur di farli lavorare più a lungo. Ed anche in Liguria si sono riscontrati problemi nel sistema telematico che hanno causato forti rallentamenti nelle operazioni di sdoganamento. Nello scorrere il Bilancio dell’Agenzia delle Dogane si riscontrano notevoli (in proporzione al fatturato, se non altro) costi di personale ed altrettanto rilevanti oneri di svalutazione dei crediti, per cui quanto meno l’introduzione di sistemi di incentivazione del personale e di analisi delle singole operazioni parrebbero necessari. Quel che è certo è che il sistema industriale italiano, in un mondo sempre più globale, non può permettersi di essere penalizzato anche da questo snodo essenziale del commercio, per cui una revisione radicale – certamente sul piano dei controlli e dell’efficienza – è fondamentale. La quantificazione dell’utilizzo delle risorse economiche non è stata volutamente specificata perché – come in parte già riportato – il dosaggio delle stesse può assumere diverse forme e modalità, molte delle quali comunque valide a prescindere dalle cifre destinabili. L’elencazione di talune priorità di utilizzo è stata però ritenuta assolutamente necessaria anche perché valutata in coerenza con il piano generale di rilancio suggerito in questa sede. Un piano, come già riportato, a favore delle imprese industriali, commerciali ed operanti nei servizi intese come unico e solo motore dello sviluppo per un paese occidentale e moderno, un piano per poter continuare a competere – magari con qualche cartuccia in più rispetto a quanto oggi in essere – a livello internazionale. Molti dei suggerimenti riportati implicano un accordo a livello di Unione Europea per poter essere concretamente attuati; intravedere aiuti di stato in molte delle proposte formulate è infatti possibile. E’ però logico che se “il vero malato d’Europa” per prendere la recentissima definizione che l’Economist ha dato di noi con una copertina che avrebbe dovuto far venire i brividi alla nostra classe politica, decide di intraprendere una strada virtuosa, particolare, speciali nei modi e nei tempi di attuazione, non può non ottenere delle deroghe per potersi presentare tra due-tre, massimo quattro anni rinforzato e, possibilmente, ristrutturato nel vero senso della parola. C’è da esser certi che di fronte ad una simile prospettiva l’Unione Europea non può non darci una mano ed i provvedimenti di questi giorni sul piano di Alitalia sono lì a dimostrarlo. Le possibilità di recupero che abbiamo sono non numerose, numerosissime, il piano suggerito è articolato e certamente ambizioso. Probabilmente alcuni lo considereranno anche lacunoso o superficiale, vista la scarsità di approfondimenti e di dettagli contenuti in queste pagine. Hanno ed avranno certamente ragione, però una riflessione globale era necessaria e riteniamo che ogni singolo contributo possa avere un suo valore. Però questo piano è concreto e rapidamente attuabile. Matteo Colaninno e i suoi giovani industriali cercavano, a Santa Margherita, quattro o cinque proposte, filoni, idee; qui ne trovano dieci. Con anche le relative cifre, ove stimabili. L’aspetto più delicato, cioè quello inerente la possibilità tecnica del reperimento delle risorse, è stato comunque molto attentamente valutato e ponderato. Ad avviso degli estensori un simile piano è anche notevolmente più efficace – in quanto con conseguenze strutturali – di ulteriori manovre finanziarie di corto respiro, di tassazioni sulle rendite che possono solo irrigidire ulteriormente il sistema finanziario ed allontanare ancor di più potenziali investitori, per non parlare dei balzelli, dei bolli e delle altre sempre più arcaiche forme di finanziamento del deficit che dovrebbero essere ogni giorno più lontane da un moderno paese industriale. La possibilità di attuazione è solo ed esclusivamente funzione – giova ribadirlo ancora – della volontà politica sottostante, ma ance del concorso e della consapevolezza di una parte non piccola della classe dirigente del nostro paese, che ne porterà i meriti o le responsabilità nei confronti delle future generazioni.