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(WSI) –
Va bene che il culto del progresso
non va più di moda e che troppe tragedie
ci hanno insegnato a tenere a freno
le nostre ansie di rigenerazione. Va bene
che il rapporto delle Nazioni Unite pubblicato
venerdì scorso accusa la civiltà
industriale di essere responsabile dei
mali del pianeta e invoca una nuova etica
del riciclaggio. Va bene che anche i
progressisti hanno smesso di chiamarsi
così e oggi si definiscono, più genericamente,
“democratici”.
E, però, da noi si sta esagerando. Ormai
viviamo in una specie di Truman
Show: sembra di stare in una bolla nella
quale gli anni novanta vengono conservati
e riciclati all’infinito. Se vi guardate
intorno, vi accorgete che Prodi fa il presidente
del consiglio come dieci anni fa,
che i ministri sono in buona parte gli
stessi, che Enrico Letta è il più giovane
oggi come allora, che Leoluca Orlando
vuole tornare a fare il sindaco di Palermo
come quindici anni fa…
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Ma questi, direte voi, sono luoghi
comuni. E allora provate a accendere
la televisione: anche qui, la caratteristica
del nuovo corso è un rigorosissimo
ritorno al futuro: con Biagi e Santoro
che riconquistano i teleschermi, Maurizio
Costanzo che riprende (e Dio sa
quanto se ne sentiva il bisogno) il suo
show, e, soprattutto, con Pippo Baudo
che torna trionfalmente a Sanremo.
Se fosse solo una questione di persone,
non sarebbe un gran problema.
Il fatto, però, è che, dato che le idee
camminano sulle gambe degli uomini, la
sostanza non è molto diversa dalla superficie:
anche a livello di policies, siamo
intrappolati nel Truman Show. Si dia
uno sguardo all’agenda politica. Mentre
aleggia minacciosa l’ombra del referendum
sulla legge elettorale, è tornata in
pista l’annosa, irrisolvibile questione
istituzionale. Ed è tutta una gara a risfoderare
le parole d’ordine dei primi anni
novanta: doppio turno alla francese o
proporzionale corretto alla tedesca?
Premierato forte o semipresidenzialismo
debole?
Per non parlare del welfare. Qui, la
situazione l’ha riassunta meglio di tutti
Giuliano Ferrara, con un editoriale intitolato
«Che palle, le pensioni». Il
prossimo 28 febbraio saranno passati
dieci anni da quando la commissione
Onofri presentò all’allora governo Prodi
le sue conclusioni. Lì dentro c’era già
tutto: la riforma degli ammortizzatori
sociali con un’indennità di disoccupazione
automatica e uguale per tutti,
l’introduzione di
un reddito minimo
d’inserimento, l’accelerazione
della riforma delle pensioni.Tutti
temi sui quali, ancora oggi, interminabilmente,
ci si accapiglia.
E la politica industriale? In quel
campo, come ha scritto Nicola Rossi, «è
da trent’anni o più che le classi dirigenti
italiane pensano di poter spostare in
avanti la frontiera delle possibilità produttive
del Paese destinando ulteriori risorse
pubbliche a questo o a quel progetto,
a questo o a quel fondo, ma guardandosi
bene dal modificare i meccanismi
di fondo che determinano il dinamismo
di una società e la struttura di incentivi
da cui dipendono le azioni quotidiane
e le scelte di vita degli italiani».
Ma non sarà che, senza accorgercene,
siamo passati da una sinistra
maoista a una sinistra taoista: una sinistra
che ha smesso di credere nel futuro
per rassegnarsi all’eterno ritorno
del sempre uguale?
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