MILANO (WSI) – Washington DC, disse una volta Kennedy, è una città con l’efficienza del sud e il fascino del nord. Il giudizio era ingeneroso sul fascino, di cui in realtà Washington non è priva anche se non può certo competere con altre città del sud come Savannah o Charleston, ma non era abbastanza duro sull’efficienza. Dagli anni di Kennedy, infatti, Washington è diventata ancora più inefficiente sia come città (che funziona, ma costa carissima ai contribuenti americani) sia come simbolo del sistema politico. La situazione di semiparalisi strutturale del legislativo ha indotto l’amministrazione Obama ad agire in questi anni sempre più per via amministrativa, ma un paese come l’America non può fare a meno di leggi di bilancio con un minimo di razionalità. E invece abbiamo un clima politico costantemente avvelenato e un Congresso che produce leggi di qualità sempre più bassa, scritte all’ultimo minuto tra ricatti e veti incrociati.
In parte questo riflette la radicalizzazione a livello di opinione della società americana, in parte è frutto della legge elettorale. Non è un caso che l’America funzioni ancora bene a livello statale, dove vengono in genere eletti governatori centristi, e che il Senato sia meno radicalizzato. La Camera dei Rappresentanti è eletta invece in circoscrizioni che cambiano continuamente di forma a seconda della convenienza politica e premiano le componenti più intolleranti dei due partiti. Il risultato è una Camera che non parla più con il Senato e in cui i due schieramenti dialogano sempre meno tra di loro. La vicenda del debt ceiling si chiude senza avere fatto troppi danni, ma il prezzo è che si tratta solo di una tregua e che la lite riprenderà in febbraio, anche se i soldi finiranno di nuovo solo in aprile. I democratici hanno concesso una tregua così breve perché sperano che la nuova ondata di conflittualità in primavera danneggi i repubblicani nelle elezioni di novembre. I repubblicani, dal canto loro, dovranno portare a casa qualcosa di più del quasi nulla che hanno ottenuto questa volta ed eserciteranno quindi una pressione ancora più forte.
Durante lo scontro Obama e i democratici hanno sperato in una forte discesa delle borse, che li avrebbe rafforzati nelle trattative, e hanno agitato molto la minaccia di un crollo di Wall Street e di un’apocalisse globale. Alla fine hanno vinto lo stesso, ma è stato interessante vedere come la borsa abbia creduto poco al disastro e come i bond non vi abbiano creduto per niente. L’esperienza di queste due settimane indurrà quindi i mercati a essere ancora più scettici in primavera, quando si riaprirà lo scontro. Nello scenario peggiore, questo scetticismo spingerà i politici a usare toni ancora più elevati e a prolungare il conflitto.
La forza dei Treasuries e dei bond in generale, in questi giorni, non è stata dovuta a una fuga dall’azionario (che in sostanza non c’è stata). Se così fosse stato, il raggiungimento dell’accordo e l’azionario di nuovo sui massimi storici avrebbero determinato un’immediata caduta dei corsi obbligazionari, che invece stanno tenendo magnificamente. In realtà, la forza dei bond nelle passate e nelle prossime settimane, è dovuta all’idea che il tapering sia avviato a fare la fine dell’exit strategy, quella cosa di cui si è parlato per tutto il 2010 e il 2011 e che poi è scivolata sempre più sullo sfondo fino a essere completamente dimenticata.
In effetti, il profilarsi di un nuovo scontro in Congresso in primavera può fornire alla Fed una scusa eccellente per un lungo rinvio del tapering. Larry Fink di Blackrock, molto vicino all’amministrazione e ai democratici, parla addirittura di maggio o giugno. Le colombe del Fomc insisteranno prevedibilmente anche sulla necessità di verificare gli eventuali danni sulla crescita provocati dai 16 giorni di chiusura parziale della pubblica amministrazione federale. Anche i dati più recenti sull’edilizia, meno buoni del previsto, spingeranno nella direzione della massima prudenza.
È possibile che a dicembre ci sia un tapering minimo e una tantum, 5-10 miliardi, con un senso esclusivamente simbolico. Si sa che Bernanke amerebbe lasciare la Fed con un gesto che indicasse che la strategia ultraespansiva da lui inaugurata è missione compiuta. Può darsi che il Fomc lo accontenti, salvo poi congelare tutto subito dopo. Come nota maliziosamente il Wall Street Journal, Bernanke e la Yellen appaiono simili ma non lo sono. Il primo è un friedmaniano diventato per necessità colomba (come è concesso ai friedmaniani) ma desideroso di tornare un giorno a una politica monetaria normale. La Yellen, formatasi su Tobin, è invece colomba da sempre e per sempre lo resterà.
Si apre dunque una fase, nei prossimi tre e forse sei mesi, molto diversa da come ci si era tutti quanti immaginati in giugno, quando la parola tapering è entrata in tutte le case. La fine 2013 che si profilava allora era molto cattiva per i bond, pessima per gli emergenti (sia come valute sia come azioni o bond) e grigia sull’azionario. Lo scenario che si intravede adesso è invece tranquillissimo per i bond di ogni ordine e grado, moderatamente positivo per gli emergenti (che hanno però recuperato già parecchio e che non hanno certo risolto in questi mesi i loro problemi strutturali) e positivo, ma non trionfale, per l’azionario americano.
Lo spazio per l’SP 500 è ridotto dal fatto di essere già salito del 21 per cento dall’inizio dell’anno, dalla concorrenza dei bond visti di nuovo come tranquilli e da un’accelerazione della crescita che si prospetta per il quarto trimestre meno brillante di come ci si era immaginato. È anche probabile che i flussi verso l’azionario continuino a orientarsi in prevalenza verso l’Europa.
Quello che abbiamo tracciato fin qui è lo scenario di base, positivo per gli asset finanziari ma non esaltante sul piano strutturale. C’è però la possibilità, cui assegniamo un 30 per cento di probabilità, che democratici e repubblicani usino i prossimi tre-sei mesi per disegnare una riforma fiscale. Non un piano ambizioso come quello prospettato nel 2010 dalla commissione bipartisan Simpson-Bowles, che produsse un ottimo programma di risanamento strutturale del bilancio federale entro il 2035, ma una versione ridotta che riesca però a violare qualche tabù a destra (tasse) e a sinistra (sanità e previdenza), aprendo la strada ad altre misure nei prossimi anni.
È possibile che Obama voglia lasciare in eredità non solo la riforma sanitaria ma anche l’avvio del risanamento finanziario del bilancio pubblico ed è possibile, dall’altra parte, che tra i repubblicani, che ufficialmente non chiedono di meglio che mettersi al lavoro su questo fronte, emerga una maggiore disponibilità al compromesso. La linea di scontro frontale, del resto, li ha danneggiati nei sondaggi. Se così fosse, e se l’eventuale dialogo riuscisse a produrre qualche risultato degno di nota, la Fed innalzerebbe inni al cielo e celebrerebbe l’accordo con l’adozione di una politica, se possibile, ancora più espansiva. Si ripeterebbe il patto Clinton-Greenspan del 1993, quando Clinton avviò il risanamento di bilancio tagliando le spese e aumentando le tasse e la Fed abbassò immediatamente i tassi. Lo scenario che si aprirebbe sarebbe largamente positivo per gli asset finanziari e sosterrebbe un rialzo del dollaro, che riconquisterebbe gran parte del terreno perduto in questi anni come valuta globale di riserva. Fine del sogno.
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