Doveva essere la catastrofe prossima ventura dell’economia mondiale, un nuovo enorme buco nero per gli investitori dopo lo scoppio del bubbone argentino nell’autunno del 2001; ed invece a distanza di soli sei mesi dalla vittoria elettorale il pericoloso estremista Lula si è trasformato, agli occhi della comunità finanziaria internazionale, in un’autentica superstar.
La classica luna di miele dei primi cento giorni? Forse, ma forse c’è davvero qualcosa di più profondo e duraturo. Il direttore del Fondo monetario internazionale Kohler e il presidente della Banca Mondiale Wolfensohn si sono detti molto impressionati dal lavoro impostato dal nuovo governo brasiliano e nell’ultima riunione congiunta delle due istituzioni il documento programmatico che traccia le direttrici di azione dell’amministrazione Lula dal titolo «Politica economica e riforme strutturali» è stato posto al centro dell’attenzione; da esso emerge una nuova formula, definita con un efficace slogan come l’ortodossia del bene, che coniuga l’austerità fiscale con le politiche sociali, perché senza una più equa distribuzione del reddito non è possibile creare un vero sviluppo di lungo periodo.
E’ questa la grande sfida che attende un paese dove il 40% della popolazione, ovvero 70 milioni di persone, guadagna in media 200 reais – circa 60 euro –, e che può rendere il Brasile un esempio e uno stimolo per molte nazioni, anche del primo mondo.
I passi intrapresi dal nuovo presidente sembrano perfettamente in linea con l’attuazione dell’ortodossia del bene; da un lato il congelamento della commessa militare da 1 miliardo di dollari per finanziare e dare l’avvio al programma «fame zero», dall’altro la conferma anche per i prossimi tre anni di un obiettivo di surplus primario di bilancio pari al 4,25% del Pil, ambizioso se inquadrato nel contesto di bassa crescita mondiale ma che i dati del primo bimestre 2003 dimostrano assolutamente alla portata.
E se la riforma agraria costituirà il banco di prova nei confronti del movimento dei senza terra che lo ha votato in massa, altrettanto impegnativa sarà la gestione dei rapporti con le fasce medie e medio-alte quando metterà mano alla riforma tributaria e a quella previdenziale, in particolare per il pubblico impiego, come prevede la sua agenda.
Ma il miracolo Lula, inteso come vittoria di un progetto dal basso guidato da un ex-operaio che ci provava inutilmente da 13 anni, non si sarebbe realizzato se non avesse scelto con accuratezza e con la giusta dose di realismo gli uomini che oggi lo affiancano nella costruzione di un sistema-paese che riesca finalmente a sfruttare a pieno le enormi risorse di cui dispone; la prima mossa, forse la più difficile sul piano politico, ha sancito un’indispensabile alleanza con il grande capitale scegliendo come vice-presidente Josè Alencar, magnate del settore tessile, esponente di spicco della Confindustria brasiliana e anche leader di un partito strettamente legato al passato regime militare.
In seconda battuta ha inteso rassicurare i mercati finanziari, perché la riduzione degli interessi sul debito estero e quindi del premio per il rischio-paese rappresenta un elemento chiave nel risanamento così come lo fu per l’Italia a metà anni ’90; e così ha nominato alla guida della Banca centrale Henrique de Meirelles, non solo esponente di un partito di opposizione ma anche primo brasiliano a dirigere una banca nord-americana (Bank Boston), e al ministero dell’Economia Antonio Palocci, che da sindaco di Ribeirao Preto aveva avviato la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità locali prima che il governo federale si muovesse nella stessa direzione.
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