ROMA (WSI) – All’epoca delle immagini, l’apparenza continua ad essere sovrana non solo nel mondo della moda, della pubblicità e dello spettacolo, ma anche in molti altri ambiti lavorativi. Soprattutto quando si parla di donne, e ci si rende conto che solo il 7% delle «più bruttine» hanno la chance di essere convocate ad un colloquio di lavoro, a differenza delle «più belle» che sfiorano invece il 54%.
Sono queste le conclusioni di un recente studio condotto da alcuni ricercatori dell’Università di Messina che, dopo aver inviato 11.000 falsi curricula in giro per l’Italia, hanno potuto constatare come al giorno d’oggi sia molto più facile trovare un lavoro quando si è considerati «fisicamente attraenti». Come se esistesse un rapporto necessario tra essere e apparire. Come se la bellezza comportasse automaticamente tutta una serie di competenze professionali. Come se le regole estetiche potessero magicamente trasformarsi in criteri di valutazione sostanziali.
I falsi curricula – spediti dai ricercatori per rispondere a 1.472 proposte di lavoro in diverse regioni italiane – presentavano tutti le stesse qualifiche professionali, ma erano poi accompagnati da foto differenti, molte delle quali ritoccate con photoshop. Aiutati da un centinaio di studenti, i ricercatori avevano cercato di riprodurre nelle foto alcuni degli stereotipi della bellezza femminile contemporanea, proprio per verificare l’impatto delle immagini e dell’apparenza sugli eventuali datori di lavoro. Arrivando così progressivamente alla constatazione che «cercare un lavoro oggi sarebbe come partecipare ad un concorso di bellezza». Ecco perché in periodo di crisi, conclude non senza ironia la ricerca, forse sarebbe meglio «investire in un’operazione di chirurgia estetica piuttosto che negli studi».
Nonostante l’importanza progressiva che sembra acquisire oggi la nozione di merito, in Italia l’apparenza fisica continua a rappresentare una sorta di cartina tornasole della propria performance. Come se la capacità di «controllare» la propria immagine corporea, soprattutto quando si parla di donne, andasse di pari passo con l’affidabilità lavorativa. Come se la conformità agli stereotipi della bellezza coincidesse con la conformità alle attese dei datori di lavoro. Quando arriveremo, anche in Italia, a separare l’essere dall’apparire e a valorizzare i contenuti piuttosto che le forme?
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