(WSI) – (…) Sulla crisi del 2008-2009 ha dominato a lungo una storiografia in tempo reale profondamente pessimista. Si è pensato sulla falsariga della Grande Depressione degli anni Trenta, dimezzata in durata e gravità grazie a imponenti misure di policy. Si è parlato della rottura completa di un modello di sviluppo e di distribuzione del reddito. Quel che più conta, si è teorizzata l’impossibilità di ripristinare quel modello di crescita.
C’è stata una lettura pessimista che definiremo moderata e ce n’è stata una radicale. Pessimismo moderato è la New Normal di El Erian e di Bill Gross. Il mondo ha finito di crescere del 3-4 per cento e si avvia a una lunga fase storica di crescita bassa, tra l’uno e il due, di pesante interventismo statale e di attacco fiscale e salariale ai profitti. Le borse dovranno scontare questo flusso strutturalmente più basso di utili e di dividendi posizionandosi molto al di sotto dei livelli pre-crisi.
Nella New Normal di Pimco la vita è stentata, ma almeno si vive. E’ una prospettiva di semistagnazione, non di deflagrazione. Più pessimista è invece la lettura di quanti mettono l’accento sulla pesante eredità della crisi, l’accumulo di uno stock di debito pubblico che non ha precedenti in tempo di pace. Come si è ben visto con la vicenda della Grecia, il deterioramento fiscale rende fragile e pericoloso l’attraversamento del prossimo decennio. Non solo si cammina lentamente e con fatica, come dice Pimco. Si cammina su un campo minato.
La storiografia radicale, dal canto suo, fa un altro passo verso il fondo della notte. Non si limita a considerare l’ultima crisi, ma sottolinea come dai primi anni Ottanta in avanti, dall’inizio cioè del ciclo secolare di Nuovo Ordine seguito alla parentesi caotica degli anni Settanta, le riprese siano state comprate con dosi crescenti di debito. Le crisi, di conseguenza, sono state (e continueranno a essere) sempre più pesanti e profonde. Il crash del 1987 appare oggi come un episodio tanto appariscente quanto superficiale. Più grave appare la crisi asiatica del 1997-1998, pesante ma ancora circoscritta.
Planetaria (Cina esclusa, a dire il vero) è invece la crisi seguita allo scoppio della bolla di Internet. Un nulla, se paragonata con il 2008-2009, a sua volta poca cosa se spingiamo lo sguardo alla prossima crisi, fatta di default sovrani su scala globale, di iperinflazione, protezionismo, collasso sociale, anarchia e tirannide.
E’ rinfrescante, in questo contesto, vedere emergere in nuce una storiografia non tragica della crisi. Jim O’Neill, personaggio dotato di una dose non comune di testosterone intellettuale, azzarda la tesi che la crisi non abbia ridotto in modo permanente e strutturale la capacità di espansione dell’economia globale. La media storica della crescita nel quarto di secolo che ha preceduto la crisi è stata del 3.7 per cento. Ci sono stati il 2008 e il 2009 che ben conosciamo, ma per il 2010 la stima di Goldman Sachs è del 4.6 e per il 2011 del 4.7. Il Fondo Monetario è ancora fermo al 4.2, ma leggendo tra le righe Strauss-Kahn è evidente che nel prossimo Outlook ci sarà una revisione verso l’alto.
Facciamo un passo oltre Jim O’Neill e avanziamo l’ipotesi, un semplice esperimento mentale, che la Grande Recessione non sia stata una crisi terminale, ma un provvidenziale incidente di percorso. Nelle numerose dimensioni dell’universo ne è concepibile una in cui, fra qualche anno o decennio, il 2008 e il 2009 verranno ricordati come un’increspatura che ha reso possibile, al prezzo di milioni di posti di lavoro distrutti, un’esplosione della produttività e un riequilibrio su basi molto più solide dell’economia globale.
La New Normal ipotizza una crescita bassa nel mondo sviluppato perché sostiene correttamente che in Europa, America e Giappone dovremo risparmiare di più e consumare di meno. La New Normal tende però a identificare il Pil con i consumi interni. Il Pil è però fatto anche di investimenti e di esportazioni.
Per molti, troppi anni l’America ha avuto una crescita della produzione del 3 per cento e un aumento dei consumi del 4. Da qui in avanti è possibile ipotizzare un aumento dei consumi del 2 mantenendo la crescita della produzione al 3. In altre parole, invece di importare quell’uno in più, lo può benissimo esportare.
Il mondo emergente, dal canto suo, ha tutta l’aria di essere uscito dalla crisi con una capacità di espansione ancora più forte. Cina, India e Brasile cresceranno nei prossimi dieci anni molto di più di quanto non si pensava nel 2007, prima della crisi. Il Brasile ha scoperto di essere un paese petrolifero. L’India ha apportato progressivi ritocchi alla sua politica economica e ha scoperto che può tranquillamente crescere del 10 per cento l’anno.
La Cina sta avanzando a una velocità annualizzata del 13 per cento e cercherà di rallentare, rimanendo però al di sopra del suo tradizionale 8 per cento. (A quanti si ostinano a parlare di dati cinesi truccati ricordiamo che la Cina ha costruito in due anni il doppio delle linee ferroviarie ad alta velocità, 7 mila chilometri, di quanto l’Europa dei Tgv, degli Ice e delle Frecce Rosse abbia fatto in vent’anni, mentre gli Stati Uniti, nonostante i piani obamiani, sono ancora a zero).
Ah, ma allora l’inflazione, penserà qualcuno. In realtà, nell’universo parallelo che stiamo esaminando, vale ancora la legge di Okun, una regoletta empirica semplice semplice. Perché la disoccupazione scenda dell’uno per cento in un anno occorre che il Pil cresca del doppio, cioè del due, oltre al suo livello tendenziale. Negli Stati Uniti la crescita tendenziale è stimata al 2.7 per cento l’anno. La disoccupazione è ora, arrotondata, al 10 per cento. Per passare dal 10 al 9 occorre che il Pil salga per tutto un anno del 2.7 più 2 per cento, ovvero del 4.7.
Pochi, nei mercati, scommettono per il 2010 su una crescita americana così alta, ma nel nostro universo parallelo certe cose succedono. Andiamo dunque mentalmente al 31 dicembre. Il Pil è cresciuto del 4.7 e la disoccupazione è al 9. E’ impellente la necessità di alzare i tassi? L’inflazione salariale è già tra noi?
Proseguiamo il nostro viaggio mentale e portiamoci al 31 dicembre 2011. L’economia è cresciuta un’altra volta del 4.7, non male, e la disoccupazione è scesa all’8. Il Nairu, il livello di disoccupazione che fa partire l’inflazione salariale, è molto più in basso (prima della crisi si pensava fosse il 4, ora forse è più vicino al 5). Dall’8 al 5 c’è spazio per altri tre anni al 4.7 di crescita senza inflazione salariale. Per prudenza i tassi vanno normalizzati prima, ma stiamo parlando di 2012, 2013 e 2014. Oggi siamo nel 2010.
Uno studio pubblicato la settimana scorsa dalla Fed di San Francisco sostiene addirittura che l’esplosione della produttività ha rallentato nel 2009 il funzionamento della legge di Okun. Il rallentamento, secondo gli autori, si protrarrà nel futuro prevedibile. Questo significa che occorrerà ancora più crescita per fare scendere la disoccupazione.
Abbandoniamo a questo punto questo strano universo parallelo e torniamo nel nostro, popolato da facce lunghe e stranamente turbato da ansie non per la disoccupazione, ma per l’inflazione in agguato, i default dietro l’angolo e la Fed che non vede l’ora di alzare i tassi.
Smettiamo di fantasticare ridicolmente su una riscrittura della storia della crisi del 2008-2009 e riassumiamo un’aria mesta e preoccupata, più consona allo spirito dei tempi. Torniamo soprattutto dentro un orizzonte di aspettative limitate, in cui il meglio che si può chiedere alla vita è un altro giorno senza default sovrani e senza che accadano cose strane all’euro e a Eurolandia.
Bene, pare effettivamente che queste aspettative limitate abbiano qualche chance, almeno per qualche settimana o addirittura mese. Feldstein, uomo intelligente ma anche parecchio cocciuto che si dice tuttora convinto che la Grecia non ce la farà e che l’euro imploderà, dovrà pazientare almeno fino alle grandi aste greche d’autunno, visto che le prossime sono di fatto già coperte da garanzie europee o, in caso estremo, dal Fondo Monetario.
Uno dopo l’altro, i semafori rossi che avevano bloccato il rialzo azionario a metà gennaio si sono girati al verde. L’atteggiamento aggressivamente antibusiness e antibanche dell’amministrazione Obama si è stemperato. La bomba greca è stata, salvo imprevisti, disinnescata. La crescita è più alta del previsto. L’inflazione è bassa e scende. La Cina non è esplosa. L’ipercomprato dopo nove mesi di rialzo è diventato ipervenduto. Una lunga teoria di semafori verdi e bond e azioni salgono insieme, tenendosi per mano. L’euro ha finito di scendere.
Qualcuno si chiede che cos’altro di positivo potrà sostenere i corsi azionari. I tassi non possono scendere, gli utili sono già scontati, i default sono già dati per rinviati e la liquidità dei fondi istituzionali è piuttosto bassa.
La risposta è che i flussi verso l’azionario riprenderanno quando verrà meno la prospettiva di capital gain sui bond. Comprare un bond è un’avventura che può farci percorrere un numero infinito di strade, ma queste strade si concludono tutte invariabilmente a 100. Ad un trader a leva questo non importa, ma l’investitore individuale finale prima o poi si rende conto che 100 è 100 e non c’è modo di cambiarlo, né con le buone né con le cattive.
Quanto dureranno le luci verdi? Se il traffico sarà regolare e se non ci saranno i soliti invasati che vogliono mettersi a correre qualche settimana di lentissimo rialzo è possibile. Le luci gialle non tarderanno troppo a comparire. Qualche indicatore anticipato comincia a segnalare piccoli rallentamenti in Asia. La Cina darà altri piccoli colpi di freno. Rivedremo
presto tra noi i bollofobi ad ammonirci. Un’asta obbligazionaria nell’Isola di Pasqua potrebbe andare male. Il dollaro più forte potrebbe ammaccare i risultati di qualche esportatore americano.
Insomma, in un mercato attentamente sorvegliato dai policy maker lo spazio di rialzo sarà molto modesto. In compenso è davvero difficile trovare al momento motivi seri per una nuova flessione.
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