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CRISI, PER CHI SUONA LA CAMPANA IN EUROPA

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(WSI) – Con il listino ridotto a una marmellata, la via della sopravvivenza per le banche di tutto il mondo sta in una rapida riconversione verso una strategia «pane e burro». Menù basic, suggerisce il Wall Street Journal, da prima mattina, tutto proteine e carboidrati. Il tempo della nouvelle cousine, che sui mercati finanziari si traduceva con derivati, opzioni e prodotti dalle complesse architetture, è finito. Almeno per ora non è più di moda. In attesa dell’immancabile ritorno del vintage , ora le banche sono chiamate a maggior concretezza.

L’uragano che ha scosso Wall Street ha innegabili riflessi europei: le banche piccole e grandi di casa nostra hanno rapporti commerciali con le big americane. Comprano i loro prodotti, li vendono sul mercato italiano, realizzano operazioni assieme. Anche le industrie non sono esenti dal contagio. Finmeccanica aveva proprio Lehman nel consorzio di garanzia del suo prossimo aumento di capitale. Ora dovrà trovarsi un altro partner, anche se non sarà difficile individuare una istituzione finanziaria che partecipi al consorzio.

I punti di contatto non mancano, eppure le differenze tra Europa e Usa sono profonde, ad iniziare dalla complessità della struttura finanziaria: la quantità di pane e burro che viene messa ogni giorno in tavola rispetto all’insieme delle pietanze in stile nouvelle cousine.

Ed è per questo che sebbene i mercati siano in questo periodo dominati da un senso di panico diffuso — alimentato dalle vendite impostate in automatico dai software al servizio dei gestori e nessuno voglia più avere in portafoglio nulla che assomigli a un’azione di una banca o di una compagnia di assicurazioni — le differenze non permettono di confondere i due lati dell’Atlantico, che restano lontanissimi. La diversità sostanziale è il peso, all’interno degli istituti di credito, del settore dell’investment banking rispetto all’attività caratteristica della banca.

Con i tassi interbancari in crescita, con il senso di fiducia reciproca in rapida diminuzione anche tra i professionisti del credito, la sopravvivenza sul mercato può essere assicurata solo a chi riesce ad approvvigionarsi direttamente dalla propria clientela. E in questo le banche europee ed italiane hanno una particolare vocazione, tanto che le operazioni di garanzia della clientela annunciate la scorsa settimana da Mediolanum e Unipol vanno lette proprio in questa ottica di tutela di una fonte di business.

Lehman infatti non ha registrato perdite superiori ai concorrenti, ma ha pagato per la mancanza di una base di raccolta propria, fattore che invece sta salvando (anche se a carissimo prezzo) la svizzera Ubs. Tanto che non è un caso se il giorno dopo il crac l’inglese Barclays — che ha raccolta propria — si è fatta avanti per comperare l’investment banking di Lehman.

Dopo la fase di concentrazione del sistema italiano, quello che è accaduto in Germania nell’ultimo anno appare significativo: hanno iniziato i francesi del Crédit Mutuel acquisendo per 7,7 miliardi di dollari le attività retail di Citigroup. All’inizio di questo mese Allianz ha fatto in modo che la sua controllata Dresdner si fondesse con Commerzbank creando un gruppo da 1.500 sportelli e 11 milioni di clienti. E infine Deutsche bank ha messo sul tavolo 3 miliardi di euro pur di mettere le mani sugli 850 sportelli e i 14,5 milioni di clienti di Deutsche Post.

Back to basic, urlano a Wall Street. Tornate alle origini, all’essenziale. Ed è questo il segnale di un profondo cambiamento in atto nelle strategie delle aziende bancarie. Un cambiamento i cui prodromi si manifestarono con la vicenda Northern Rock: dopo un anno pochi hanno imparato la lezione. Le banche italiane, dal canto loro, escono meno danneggiate dalla bufera in funzione di una particolare arretratezza dei loro sistemi di investimento: un ritardo risultato provvidenziale.

Dieter Rampl, presidente della più grande banca con sede in Italia, Unicredit, dopo le assicurazioni del suo amministratore delegato Alessandro Profumo — che però poco hanno rassicurato i mercati — ha sottolineato che l’andamento in Borsa del titolo dipende dalla cattiva congiuntura internazionale. Unicredit nel dicembre scorso quotava sopra i 6 euro. La scorsa settimana è stato scambiato a 3,09. È quella la distanza che resta da recuperare. Tre euro di credibilità.

D’altro canto, l’intero mestiere di banchiere è basato su credibilità e fiducia. E quando sarà passato l’uragano le banche avranno molto da lavorare per recuperare. Non solo in Borsa. Perché il clima economico, non solo finanziario, continua a concedere pochi spazi all’ottimismo. In Italia le previsioni di Euler Hermes — società del gruppo Allianz che si occupa di assicurazione dei crediti — indicano 500 fallimenti in più quest’anno rispetto al 2007. Fallimenti che raddoppieranno in Spagna, aumenteranno del 10 per cento in Francia e cresceranno in maniera sensibile sia nel Regno Unito che negli Usa.

È confrontandosi con questa realtà che le banche, una volta calmate le acque, dovranno cercare di recuperare credibilità nell’agire e solidità nei bilanci. Facendo i conti con una economia in recessione, con aziende in crisi, con risparmiatori spennati e angosciati dalle rate del mutuo. Non sarà facile.

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