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CRISI BANCARIA, LA SPAZZATURA ALLO STATO

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(WSI) – Un fondo statale per evitare il rapido collasso, altrimenti inevitabile, dell’intero sistema finanziario. È questa la proposta dell’amministrazione Bush e della Federal Reserve presentata ai leaders del Congresso per evitare l’ormai imminente baratro che si stava aprendo sotto i grattacieli di Wall Street e che ci avrebbe condotto ad una crisi simile alla Grande Depressione degli anni Trenta. A questo punto ci si deve chiedere se la creazione di un fondo spazzatura, che – si dice – dovrebbe acquistare tutte le attività (dai titoli legati al mercato immobiliare fino ai derivati) che non hanno più mercato (e che sono quindi illiquidi) permetterà di evitare il peggio. In effetti questo salvataggio statale dell’intero settore finanziario appare oggi l’unica strada possibile per evitare il collasso del sistema e per sperare di limitare le ripercussioni negative di questa crisi sull’economia reale.

Inanzitutto occorre sottolineare che con questa proposta le autorità americane riconoscono ufficialmente per la prima volta che non abbiamo a che fare con i problemi di alcuni istituti ma con una crisi che ha coinvolto l’intero sistema finanziario. In secondo luogo, Washington riconosce che questa crisi sistemica non può essere affrontata con i normali strumenti di politica economica, ma con misure straordinarie. Queste implicite ammissioni, che avvengono però solo a più di un anno dallo scoppio della crisi, costituiscono un significativo progresso che permette di affrontare di petto i gravi problemi sul tappeto.

La proposta di creare un «fondo spazzatura» si rifà all’intervento effettuato nell’agosto del 1989 dallo Stato federale americano dopo la crisi di molte casse risparmio. Allora venne creata la Resolution Trust Corporation, una struttura finanziata con fondi pubblici che si fece carico delle attività illiquide delle Savings & Loans statunitensi. L’operazione di salvataggio si rivelò alla fine un successo: infatti le perdite finali per lo Stato americano ammontarono a 75 miliardi di dollari dopo la liquidazione di circa 400 miliardi di dollari di attività di 747 casse di risparmio. È dunque assolutamente comprensibile che oggi le autorità americane guardino a quell’esperienza per cercare di evitare l’ormai imminente collasso del sistema finanziario.

Ancora una volta non si tratta di una scelta, ma di un passo obbligato. Non è certo però che produrrà risultati buoni come la Resolution Trust Corporation nei primi anni Novanta. Per quali motivi? Indipendentente dal fatto che l’amministrazione dovrà trovare un accordo con il Congresso sui finanziamenti di questo fondo (i soldi saranno solo pubblici o sarà un fondo privato sostenuto con capitali pubblici?) e sul suo mandato (che tipo di attività potrà acquisire e a quale prezzo?), l’aspetto cruciale è che la crisi delle casse di risparmio aveva caratteristiche completamente diverse da quella attuale.

Allora si trattò di mettere all’asta gli immobili e di cercare di recuperare i capitali distolti da alcuni dirigenti di queste casse di risparmio. Questo lavoro venne inoltre facilitato dall’uscita dell’economia americana dalla breve recessione dell’inizio degli anni Novanta. Oggi oltre all’enorme differenza di grandezza delle cifre in gioco, vi è la «maledetta» complicazione che gli attivi illiquidi sono per lo più complicati e astrusi strumenti creati dalla nuova ingegneria finanziaria, una vera e propria catena di Sant’Antonio. Per smontarla non basta la vendita dell’immobile che teoricamente regge il tutto. Inoltre, questi strumenti illiquidi non sono collegati solo con il mercato immobiliare, ma anche con altre attività (dalle azioni ai prezzi delle materie prime, ai prestiti a Hedge Funds, ora in stato a tal punto comatoso che bloccano i riscatti, ecc.).

È una montagna di carta, per lo più straccia, di proporzioni gigantesche. Il costo del salvataggio dell’intero sistema finanziario sarà dunque enorme anche perché la crisi del mercato immobiliare continua ad aggravarsi e perché all’orizzonte non vi è alcuna ripresa economica, ma una recessione che si prospetta molto severa.

Vi sono poi altri interrogativi. Le due banche svizzere e le banche europee avranno accesso a questo fondo? Inoltre, la creazione di questo fondo richiederà alcune settimane: bisognerà gestire questo periodo. A tale proposito basteranno le continue iniezioni di capitale delle banche centrali, il divieto di vendere allo scoperto (ossia di giocare sul ribasso del corso di un’azione), lo stanziamento di 50 miliardi di dollari per sostenere i fondi monetari, ecc.? E l’inevitabile aumento del debito pubblico americano, finanziato in gran parte tramite capitali stranieri, quali conseguenze avrà sul dollaro?

Pur tenendo conto di queste controindicazioni, il salvataggio da parte dello Stato del sistema finanziario resta l’unica via percorribile per tentare di evitare il peggio. E così giustamente l’hanno percepita i mercati finanziari. Questa proposta delle autorità americane sconfessa platealmente la decisione di domenica scorsa di lasciar fallire la Lehman Brothers, anche se molto probabilmente le devastanti conseguenze di quel fallimento hanno fatto cadere le ultime resistenze di coloro che a Washington ancora si opponevano a quello che sarà il più grande salvataggio statale della storia, prodotto – e usiamo le parole pronunciate ieri a Parigi dal finanziere americano Georges Soros – «dall’integrismo del mercato, ossia dalla ideologia del lasciar fare e dell’autoregolamentazione dei mercati», ossia dal liberismo. Il costo delle follie di banchieri e gestori di Hedge Funds ricadrà dunque sulle spalle dei contribuenti. Ora questo colossale salvataggio dovrà portare al ripensamento del sistema finanziario e delle politiche economiche che hanno portato il mondo sull’orlo del baratro.

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