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Crescita, ovvio. Patrimoniale, non se ne parla nemmeno

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(WSI) – Difficile dire quale sarà lo sviluppo e l’esito dell’iniziativa lanciata ieri dal presidente del Consiglio. L’atmosfera politica è così arroventata che l’opposizione ha ritenuto di respingere subito al mittente l’offerta di un confronto su un’agenda che affronti la prima e vera priorità nazionale. Che è una e un sola: la crescita economica. Elementari considerazioni di ragionevolezza e responsabilità nazionale imporrebbero alla politica di abbassare i toni, per concentrarsi davvero sulle essenziali scelte da fare per non rassegnarsi alla prospettiva di un misero 1% di aumento del Pil. Tuttavia, anche se il suo sviluppo sarà problematico e incerto, almeno un merito immediato la proposta di Berlusconi l’ha avuto. Per un giorno almeno, la politica ha dovuto comunque misurarsi sull’agenda economica, invece che sulle indagini della Procura di Milano.

Un primo grande elemento di chiarezza è che ha segnato una battuta a vuoto la proposta di una grande imposta patrimoniale. Ha seccamente ribadito di essere contraria la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, tra gli applausi di 1.800 imprenditori a Padova. E lo stesso Bersani ha dovuto respingere la palla in campo avverso, negando il sostegno alla patrimoniale e invitando invece a riflettere sul prelievo destinato ai Comuni e che graverà sugli immobili, prelievo per altro che la sinistra ha sempre difeso visto che era contraria all’abolizione dell’lei sulla prima casa.

In ogni caso è un bene, che si sia finalmente alzata una reazione energica contro la proposta che aveva preso sempre più ad apparire una sorta di arma segreta irresistibile per abbattere il debito pubblico. È l’esatto contrario, a ben vedere. Il peggior errore è di pensare a nuove tasse, in un Paese in cui la spesa pubblica ammonta al 52,5% del Pil e la pressione fiscale al 51% — visto che il dato ufficiale del 43,3% è calcolato su un Pil in cui si ingloba un 17% di nero che le tasse non le paga, e dunque la pressione vera va calcolata invece su chi al fisco non si sottrae.

Per rilanciare la crescita, occorre avere il coraggio e l’energia di perseguire una energica riduzione La via della ripresa L’IMPERATIVO CRESCITA MA SENZA PATRIMONIALE della spesa pubblica e delle imposte, visto che l’equilibrio del bilancio è più che mai bene prezioso. Un bene che il governo Berlusconi con Tremonti è riuscito a tutelare. Ed è infondato, sostenere che la patrimoniale occorra perché la spesa pubblica sia in realtà incomprimibile. Che fortissime siano le resistenze delle mille nicchie e corporazioni che vi si annidano, è un conto. Che però non si possa fare, è tutt’altra cosa. Non gli Stati Uniti di Reagan o la Gran Bretagna della Thatcher ma la Germania, patria dello Stató etico e del welfare bismarckiano, dal 2000 al 2008 è riuscita nell’impresa di abbassare la spesa pubblica al 57,8% di Pil dov’era arrivata nel post riunificazione al 48% del precrisi, con un taglio di quasi 10 punti traslato per ben 8 punti in minor pressione fiscale. Noi invece abbiamo tradotto per intero i 7 punti di Pil di minori interessi sul debito pubblico, guadagnati con l’euro e i più bassi tassi d’interesse, in spesa pubblica aggiuntiva invece di abbassare le tasse.

Ma la Germania dimostra che meno spesa pubblica non si realizza ‘smantellando il welfare, bensì concentrandolo su chi ne è davvero scoperto, alzando l’età pensionabile; aumentando la partecipazione al mercato del lavoro — da loro sono occupati il 72%, da noi il 57% — e abbassando i contributi ai disoccupati che diventano autonomi, mentre noi li abbiamo alzati. È questa, la grande azione sulla spesa pubblica per abbassare le tasse su impresa e lavoro di cui la politica italiana sembra non riconoscere la necessità.

Ma è anche un falso che occorra la patrimoniale perché altrimenti non si sa come abbattere il debito pubblico e ridurre il rischio-Paese nella crisi dell’eurodebito. Ricordiamo per esempio che il Tesoro due anni fa ha confermato la stima dell’attivo pubblico patrimoniale ben superiore al debito pubblico, e dei circa 2.000 miliardi di euro ha valutato in 500 miliardi circa la quota “disponibile”, cioè eventualmente cedibile senza troppi problemi di procedura. Ora nessuno pensa oggi di cedere i circa 70 miliardi a cui assommano le partecipazioni di controllo di grandi quotate pubbliche come Eni, Enel e Finmeccanica. Nessuno ritiene facilmente incassabili i circa 40 miliardi di valore delle concessioni, a cominciare da quelle televisive per esempio. Ma sono circa 360, i miliardi di valore della quota di mattone ancora pubblico, per quasi quattro quinti nelle mani delle Autonomie. Il professor Paolo Savo- na l’ha ricordato molte volte, su queste colonne. Perché sono incedibili, visto che 360 miliardi sono circa 25 punti di Pil e dunque il debito pubblico scenderebbe per questa sola voce al 90%, cioè verso l’attuale media europea?

Pensiamo al federalismo fiscale, che in questi giorni vivrà momenti decisi vi nella commissione bicamerale. La giusta preoccupazione che da molte parti critiche si è levata è che sarebbe un errore, se per effetto dei decreti attuativi esso si traducesse in un aumento delle spese e della pressione fiscale. Sarebbe il colmo, dopo 20 anni passati a decantarne i meriti in termini di efficienza e riduzione degli sprechi. A maggior ragione vale per la patrimoniale, questo ragionamento. Mentre singolarmente sono molti i critici del federalismo spendaccione da una parte, che poi diventano dall’altra partigiani dell’oro alla Patria imposto come nuovo gravame ai contribuenti o ai proprietari di case.

No, la via perla crescita è fatta di una grande prova di responsabilità nazionale. Come nell’immediato dopoguerra, come per vincere inflazione e terrorismo, così contro 15 anni di crescita all’ 1% o poco più la politica deve saper trovare la forza e il coraggio di ridefinire dalle fonda menta la macchina pubblica e i suoi costi. Altrimenti per Sud, giovani e donne il conto sarà ancora più salato, e il gap col Nord in tutto e per tutto già europeo ancora più insanabile.

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