Società

Creditori alla gogna

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La rinuncia dei partiti politici greci a formare un nuovo governo è, nei fatti, un «no» al piano di rientro dal debito preparato a Bruxelles e proposto ad Atene dall’Unione Europea. Mentre il rifiuto veniva pronunciato, un Presidente francese appena insediato si preparava a incontrare il cancelliere tedesco Angela Merkel, uno dei pochissimi leader sopravvissuti al terremoto politico che, negli ultimi tre anni, ha fatto crollare pressoché tutti i governanti europei coinvolti nel tentativo, finora sostanzialmente fallito, di trovare una via d’uscita dalla crisi.

Ad aggiungere un tocco di drammaticità, caso mai ce ne fosse bisogno, l’aereo presidenziale francese è stato sfiorato da un fulmine e ha dovuto tornare indietro costringendo a rinviare l’incontro, sia pure solo di quale ora; si è così provocato l’ennesimo, sia pur quasi simbolico, ritardo europeo nell’affrontare i problemi dell’Europa. La politica torna così a recitare, per quanto in tono minore, il ruolo che la contrappone, spesso controvoglia, alla finanza internazionale. E questo avviene non solo a Parigi, Berlino e Atene.

Ma anche negli Stati Uniti, dove il presidente Obama ha lanciato accuse durissime a Wall Street e invocato regole più severe per le banche anche a seguito delle perdite impreviste di JP Morgan, uno dei colossi della finanza internazionale. Queste perdite sono la prova che le grandi banche internazionali non hanno imparato molto dalla crisi e si sono illuse di poter riprendere tutte le vecchie abitudini dopo essere state, in molti casi, salvate con soldi pubblici.

A spingere una classe politica riluttante a un confronto con la finanza internazionale c’è una società civile in ebollizione, con le manifestazioni degli indignados non solo in Spagna e Grecia ma anche a Londra e negli Stati Uniti. Il problema si può sintetizzare in una serie di interrogativi che stanno diventando sempre più pressanti: fino a che punto la società civile – e gli uomini di governo che la rappresentano – può accettare la «dittatura dello spread» per usare la felice espressione del Presidente della Consob, Giuseppe Vegas, alla presentazione del suo rapporto annuale? Fino a che punto decisioni importanti per una collettività nazionale possono venir sottratte ai suoi organi politici e sommariamente decise dal «mercato» in sedi diverse dai Parlamenti, chiamati ormai solo a ratificare sbrigativamente intese che sono dei veri e propri «diktat»?

Quando si concedono finanziamenti «sbagliati» a Paesi che non sono in grado di restituirli, l’errore viene commesso da due parti, non solo dal debitore ma anche da chi concede il prestito. Non si vede perché quest’errore debba ricadere solo sul Paese debitore, ossia sulla parte normalmente più debole in questo tipo di transazioni, e non invece suddivisa tra quanti hanno sbagliato, ossia tra debitori e creditori in base a qualche criterio che non sia puramente finanziario. Alla dittatura dello spread occorrerebbe contrapporre una sorta di «democrazia del debito» in cui ciascuno paga per i propri errori. E questo dovrebbe valere in maniera del tutto particolare all’interno dell’Unione Europea, dove i greci furono indotti a contrarre debiti anche dalla facilità con la quale numerose banche europee e americane erano pronte a offrire loro credito.

Imporre alla Grecia (e forse domani ad altri Paesi) di pagare i debiti nei tempi stabiliti può significare una condanna di questo Paese – e domani forse di altri in Europa e altrove – a lunghi periodi non solo di incertezza ma perfino di povertà. Occorrerebbe considerare che un debitore esoso può attirare su di sé un risentimento molto maggiore di quello che si attira un nemico vincitore in guerra e che un simile risentimento è pericoloso per gli stessi creditori non solo sul piano civile ma anche su quello finanziario.

Non bisogna dimenticare, infatti, che, quando il deficit pubblico si azzera, il manico del coltello passa dal creditore al debitore. Non dovendo richiedere risorse aggiuntive, il debitore si rinforza mentre il creditore si indebolisce: il debitore potrebbe infatti decidere di ritardare la restituzione del debito o ridurre gli interessi sotto il livello pattuito. Una severità eccessiva nei confronti del debitore che non ce la fa rischia di porre le basi di risentimenti dai quali potrebbero sorgere nuovi, e più forti, motivi di instabilità. Nella storia i casi di questo genere sono piuttosto frequenti (i tedeschi dovrebbero rammentare che il risentimento contro le riparazioni di guerra successive alla Prima guerra mondiale spianò la strada a Hitler) ma – si sa nelle scuole alle quali si formano gli attuali uomini della finanza la storia non ha certo il posto d’onore.

E’ essenziale che il Presidente Hollande e il cancelliere Merkel superino il livello della miopia prevalente negli ultimi mesi nell’affrontare i problemi dell’euro, nel cercare di stabilire una posizione comune che tenga conto di giustificate riserve tedesche ma anche di un quadro più generale in cui queste riserve appaiono meschine. Sarebbe uno di quei piccoli miracoli ai quali l’Unione Europea ci ha abituato se dall’incontro scaturisse una posizione comune, flessibile e ragionevole, in luogo del pericoloso dogmatismo al quale i tedeschi ci hanno abituato negli ultimi tempi.

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