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(WSI) – Cari lettori, nei prossimi giorni non credete ai giornali. Per quanto si possano esercitare in scenari e retroscenari della crisi del centrodestra e dei modi per risolverla, per quanto possano attribuire a questo o quel leader strategie e ragionamenti, la realtà è che i protagonisti brancolano nel buio. Chi pronuncia secchi no alle elezioni anticipate, il giorno dopo le contempla; chi le invoca, è pronto a barattarle con una letterina di buoni propositi.
Quest’anno si porta la discontinuità. La realtà è che, dalle regionali in poi, contiamo i giorni di una nuova era geologica della politica italiana: l’era «senza Polo». I cardinali che tra una settimana entrano in Conclave hanno un compito più facile di quello che incombe su Berlusconi, Bossi, Fini e Follini. Loro, in fondo, devono solo scegliere un Papa; nel centrodestra si tratta di fondare una nuova chiesa.
Quello che è venuto meno è il connotato stesso del bipolarismo italiano, fin dal suo inizio e senza soluzione di continuità incarnato in Berlusconi. Undici anni dopo il 1994 (è forse il tempo limite dei regni politici, neanche la Thatcher lo superò), si è sciolto il collante che teneva insieme il nord e il sud del paese, le partive Iva e gli statali, gli animal spirits e i vegetativi trasformismi. Mettendo insieme la destra rivoluzionaria e la destra law and order, Berlusconi aveva dato la sua risposta alla scomparsa della Democrazia Cristiana. Una risposta forse sgangherata, ma efficace. Qualcosa ci dice che i due milioni di voti che si sono spostati alle regionali appartengono proprio a quel popolo democristiano che si era accasato chez Silvio. Da tempo in attesa di una sanzione elettorale, la crisi è diventata irreversibile.
Con questo non vogliamo dire che Berlusconi sia finito, o che la destra non possa – anche presto – risorgere dalle sue ceneri. Vogliamo solo dire che, qualsiasi cosa accadrà, accadrà senza il Polo, sotto nuove sembianze. In fin dei conti, è di questo che stanno discutendo i leader del centrodestra: come assicurare un futuro ai loro partiti; come continuare a dare rappresentanza alla metà del paese; come far sopravvivere il bipolarismo senza Polo; come evitare che un’alternanza di governo si trasformi in una dissoluzione.
L’impresa è così inedita – il centrodestra italiano non è mai esistito in altra forma, e mai senza Berlusconi, mentre il centrosinistra di formule ne ha sperimentate a iosa – da risultare quasi impossibile. E il centrodestra italiano è così anomalo da dover scartare a priori quella che in ogni altro paese sarebbe la soluzione ovvia: cambiare il premier e ricominciare. Se prevarrà il coraggio rifondativo, può finire con le elezioni; se vincerà l’istinto di conservazione – e questo è il nostro pronostico – sarà un anno di lenta agonia.
Per uno strano scherzo del destino, la più inutile delle iniziative legislative del centrodestra e la meno appassionante per gli elettori – la devolution – diventerà il prezzo di questa scelta. Oggi si capisce meglio la forzatura pre-elettorale di Calderoli, che minacciò le dimissioni pur di avere la riforma approvata prima del voto (e si capisce meglio la saggezza di chi nel Polo non voleva cedere, e il colossale errore che commisero An e Udc a non dargli retta). Quel disegno di legge è diventato infatti inemendabile: prendere o lasciare. Il subgoverno deve lasciare, pena la perdita della faccia; la Lega deve prendere, pena la fine della propria ragion d’essere (che ancora gli porta voti al nord). E Berlusconi non ha più il carisma elettorale per mediare. Da anni avrebbe dovuto scegliere il suo delfinato, ora è troppo tardi per farlo senza un trauma elettorale.
C’è una corrente di pensiero che gli consiglia di accettare quel trauma. Perdere per perdere, meglio perdere bene, assicurando un futuro alla sua creatura, Forza Italia. Il voto a ottobre può essere un incubo per An e soprattutto per l’Udc (le simulazioni parlano di appena ottanta-novanta seggi sicuri per il centrodestra, e sciogliendo ora sarebbe ancora Berlusconi a distribuirli al tavolo della trattativa). Ma potrebbe garantire la sopravvivenza al partito del presidente, dandogli un senso oltre il suo fondatore e la primazia nella futura opposizione.
Il voto tra un anno, invece, spappolerebbe Forza Italia, che non dispone più del Tesoro: con Siniscalco può essere un calvario di manovre aggiuntive e senza tagli di tasse. Un tale fallimento aprirebbe inevitabilmente la strada a un altro centrodestra, più normale e all’europea: partito popolare ad egemonia neo-democristiana.
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