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COPERNICO, OVVERO BADANTI ITALIANE A MANILA NEL 2050

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(WSI) Copernico fu un brillante economista. Scrisse un importante Trattato sulla Moneta (Monetae Cudendae Ratio) e formulò la legge di Gresham (la moneta cattiva caccia quella buona) 70 anni prima di Gresham. Elaborò una teoria quantitativa che spiegava la relazione tra moneta, velocità di circolazione, prezzi e prodotto. Fu protagonista dell’unione monetaria tra i principati polacchi e contribuì in questo modo a rafforzare la Polonia, che i Cavalieri dell’Ordine Teutonico cercavano in tutti i modi di sottomettere.

Copernico, che parlava perfettamente quattro lingue, fu anche un eccellente medico, giurista, leader militare, diplomatico, artista, fisico e uomo di Chiesa. Fu naturalmente anche astronomo.

Come astronomo, come è ben noto, mise la Terra a ruotare intorno al Sole. Ci erano già arrivati i greci e gli indiani, ma Copernico modellizzò meglio la teoria. Ebbe l’accortezza di morire subito dopo la pubblicazione del De Revolutionibus e di presentare il tutto come un’ipotesi. La Chiesa tacque e lasciò correre. Lutero, Melantone e Calvino condannarono la teoria come eretica.

Facendo tesoro dell’esperienza di Copernico, che evitò abiure e roghi e visse 70 anni intensi e operosi, presenteremo solo come ipotesi l’idea che invece di avere un portafoglio investito in gran parte in Europa, America e Giappone e con solo qualche macchia colorata emergente, si potrebbe copernicanamente rovesciare tutto e fare esattamente il contrario.

L’idea che gli emergenti possano dare grandi soddisfazioni è vecchia di almeno cinquant’anni, ma fino a dieci anni fa è stata confinata, in Occidente, a ristrette cerchie di investitori dedicati, così come le teorie eliocentriche nei primi decenni del Cinquecento erano condivise solo da piccoli gruppi di scienziati.

Negli ultimi anni le cose sono cambiate, ma gli emergenti continuano a essere trattati come oggetti avventurosi da maneggiare con grande prudenza. Si comprano Etf azionari piuttosto generici e il debito viene quasi sempre acquistato solo se denominato in euro o in dollari.

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Gli emergenti sono l’investimento concettuale per antonomasia. Il concept investing dovrebbe suscitare, in ogni gestore equilibrato, un rifiuto istintivo, perché prescinde da qualsiasi considerazione di valore. Un buon esempio di investimento concettuale (che non è né value driven, come abbiamo detto, ma nemmeno momentum driven), è stato Internet tra il 1998 e il 2000.

C’è un’ idea seducente che lascia spazio al sogno. Chi spulcia tra i bilanci e denuncia l’assenza completa di valore e la cassa che brucia appare improvvisamente come un meschino che non coglie la bellezza del vento della Storia che soffia giovane e impetuoso.

Investimento concettuale sono tipicamente le energie rinnovabili, l’acqua sempre più preziosa, il riciclaggio dei rifiuti, i ricoveri per gli anziani. Tutte cose degnissime, che al prezzo giusto possono essere effettivamente buoni investimenti e che però vengono puntualmente proposte nel momento sbagliato. A fine ciclo, quando tutto sembra caro (e lo è), l’industria della finanza tira fuori concetti destinati all’immortalità. Lo fa spesso in buonissima fede, tanto da metterci qualche volta anche soldi propri. Qualche tempo dopo, immancabilmente, le stesse società pagate carissime perché simboli di una Nuova Era appaiono improvvisamente nella follia del loro modello di business (una parte di Internet nel dopobolla) o nella banalità del loro essere utilities che talvolta campano di sussidi (l’etanolo e le rinnovabili dopo il crollo del greggio nel 2008).

Il concettuale, naturalmente, lavora anche in senso contrario, ovvero come categoria eterna del negativo. Per molti trader e gestori inglesi (e per qualche americano) l’Europa è sempre sul punto di sfasciarsi, versa costantemente in una condizione comatosa di stagnazione ed è destinata in metà dei suoi paesi al default. L’America, dal canto suo, è in declino terminale dai tempi di Nixon, mentre il dollaro sta per essere rifiutato dai paesi Opec e dalla Cina da tanto tempo che si è perso il conto. Il petrolio non è da meno e sta per terminare dai primi anni Settanta. La crescita cinese, infine, è insostenibile dal 1978, l’anno in cui Deng Xiaoping ha avviato la riforma.

Sugli emergenti, che si prestano facilmente a idee grandiose (il XXI è il secolo della Cina, l’Africa è il continente del futuro), è dunque più che giusto procedere con cautela e verificare l’esistenza effettiva di valore qui e ora. Il concettuale, infatti, alla fine ha spesso ragione, ma prima di avere ragione fa in tempo a fallire o a far perdere molti soldi.

Ancora più cauti c’è da essere in questa fase in cui tutti i giorni esce qualche studio che canta inni agli emergenti. Meglio confrontarlo con quelli, meno numerosi ma altrettanto agguerriti, che ci avvertono dell’imminente crollo cinese.

Il concetto nuovo che sta emergendo (e al quale a grandi linee ci associamo) è che questi paesi non sono interessanti solo perchè crescono più di noi (cosa che si sapeva da tempo), ma anche perché sono più sicuri di noi. Le ragioni sono parecchie.

La prima è che di questi tempi crescere di più tende a coincidere con l’essere più sicuri. Non è sempre così, intendiamoci. Spesso una crescita forte, soprattutto se è basata sul debito, prelude a una crisi e talvolta a un crash. Se però la crescita avviene per forza propria allora la sicurezza del debito e dell’equity aumenta.

La crescita tende a tradursi anche in un minore rischio politico (i timori di instabilità sono spesso addotti come giustificazione per il mancato investimento in questi paesi). Questa non è una regola ferrea e ha nella storia importanti smentite. La Grande Trasformazione dell’Ottocento ha prodotto tanta più fragilità sociale e politica quanto più è stata veloce (basta confrontare l’Inghilterra da una parte e Germania e Russia dall’altra).
Al giorno d’oggi, però, le trasformazioni in corso in Asia, Africa e America Latina, per quanto importanti, non sono tumultuose al punto da creare aspettative crescenti destinate a trasformarsi presto o tardi in frustrazione e rancore.

Nelle scorse settimane ci siamo sempre detti fiduciosi sulla tenuta sociale e politica della Grecia, ma è evidente che tra una Grecia che ha solo iniziato un cammino difficile che durerà anni e un Brasile in solida crescita che si prepara a scegliere l’anno prossimo un centrista ancora più moderato di Lula i rischi politici non sono là ma qua.

Bassa crescita appesantita dal fardello del debito significa poi aumento dietro l’angolo del divario tra la pressione fiscale dei paesi sviluppati, già alta adesso, e quella degli emergenti, destinata a rimanere bassa e stabile. Tasse alte e in aumento creano raramente entusiasmo sociale e tendono a essere accettate solo in periodi di vera emergenza, come in caso di guerra.

Anche se la crisi non ci fosse stata, due potenti fattori strutturali giocherebbero comunque a favore degli emergenti. Il primo è la demografia, intesa in particolare come squilibrio tra lavoratori attivi e pensionati. Gli emergenti hanno un profilo molto più favorevole e, laddove non ce l’hanno come in Cina, il peso delle pensioni è molto più basso che nei paesi sviluppati. Il secondo fattore strutturale sono le materie prime energetiche e industriali.

Il Giappone non le ha mai avute, l’Europa le sta finendo e l’America ne ha già consumata più della metà. A parte Canada e Australia, che possiamo considerare sviluppati emergenti, le materie prime sono sempre più sbilanciate a favore degli emergenti, incluso tra loro l’infinito spazio geologico russo.

La crisi però c’è stata e il risultato è stato, in termini di finanza pubblica, l’uscita da Maastricht dei paesi sviluppati e l’ingresso al loro posto degli emergenti. Gli sviluppati hanno disavanzi pubblici che tendono al 10 per cento o, come in America, lo superano. Molti emergenti (parliamo del G20, non di Iran, Venezuela o stati canaglia) sono vicinissimi al 3 per cento di Maastricht, compresi quasi tutti gli africani. Quanto allo stock di debito, gli emergenti importanti sono tutti sotto il 60 di Maastricht, gli sviluppati sono o saranno tutti molto vicini a 100, se non sopra, entro un paio d’anni. Le banche, infine, sono oggi più patrimonializzate negli emergenti che da noi. Certo, le nostre ricapitalizzano ogni volta che possono, ma in Cina stanno facendo lo stesso.

In cambio di questo maggiore rischio siamo forse ricompensati, in America, Europa e Giappone, da tassi nominali e reali più elevati? E’ difficile sostenerlo. Le nostre curve partono da zero e si inerpicano a fatica verso il 3 e mezzo sui decennali (l’1.20 in Giappone). Guardate i rendimenti a tre anni in valuta locale tra gli emergenti e vedrete livelli tra il 5 e il 10 per cento. La Cina fa eccezione, ma ha e manterrà comunque tassi più alti di quelli americani, che sono bassi anche perché tenuti giù dagli acquisti ufficiali cinesi.

Siamo forse compensati, nei nostri maggiori rischi e nei nostri rendimenti più bassi, dalla prospettiva di un apprezzamento delle nostre valute rispetto alle loro? Tutto fa pensare al contrario. Tra dollaro, euro e yen è in corso un concorso di bruttezza che si protrarrà per anni con prevalenze alterne ma con una probabile stabilità di fondo tra le tre aree valutarie.

Le tre aree, ricche di debito e di disoccupati, reagiranno agli scricchiolii dei debitori o ai momenti di debolezza della crescita con piccole, frequenti e sottili operazioni di monetizzazione. Il quantitative easing su larga scala è finito e la retorica sull’exit strategy ci accompagnerà a lungo, ma la verità dei fatti vedrà qualche operazione di normalizzazione (finché la riprersa ciclica rimane su buoni livelli) convivere con misure di segno espansivo.

Bridgewater, in un rapporto recente, definisce un esempio di monetizzazione sottile quello che si sta facendo in Irlanda. La povera Irlanda, additata come esempio ai greci riottosi, ha già perso 15 punti di Pil da due anni fa ed è riuscita solo a stabilizzare temporaneamente le cose. Per mantenerle stabili, non per migliorarle, dovrà stringere ancora la cinghia e perdere altro Pil. Il governo, per lenire le pene delle banche, ha comprato da loro 70 miliardi di euro di immobili e ha dato loro in cambio titoli pubblici. Le banche portano questi titoli alla Bce, li mettono a garanzia e ottengono altrettanta liquidità. La liquidità è per un anno, ma verrà rinnovata chissà quante volte.
Alla fine del giro la Bce ha comprato debito irlandese creando moneta. Formalmente non è un acquisto outright come quelli che ha fatto la Fed, ma la differenza in pratica non è molta.

Dal canto suo il Fondo Monetario Europeo, nella proposta originale di Gros e di Mayer, si finanzierà con soldi degli stati membri indisciplinati e non creerà moneta, ma il moltiplicarsi di scatole, enti e veicoli (dal Nama irlandese all’Emf europeo) renderà più facili, all’occorrenza, operazioni di monetizzazione.

Intendiamoci, una ragionevole monetizzazione è una risposta corretta ai gravi problemi strutturali. La conseguenza, anche questa desiderabile per il bene comune, sarà però una svalutazione di euro, dollaro e yen nei confronti del resto del mondo, cioè degli emergenti.

Tenere il grosso del portafoglio nei paesi sviluppati vorrà dunque dire restare strategicamente in un’area a bassa crescita, con tassi reali a breve negativi e tassi nominali a lungo bassi e con la prospettiva di una graduale svalutazione nei confronti del resto del mondo. Un marziano con una visione d’insieme obiettiva del nostro pianeta non lo farebbe e terrebbe da noi solo la parte di portafoglio destinata al trading, che dalle nostre parti funziona meglio e costa meno.

La rivoluzione copernicana sarà visibile anche nel rovesciamento nei gradi di libertà di circolazione dei capitali. Un tempo i paesi emergenti proibivano ai loro cittadini di investire sui mercati finanziari esteri. La Cina lo fa ancora, ma gradualmente liberalizzerà. Saremo invece noi, in caso di bisogno, a mettere granelli di sabbia nelle attività di trading più speculative. Noi tenderemo a bloccare lo short (o i Cds), la Cina si appresta a introdurlo.

Noi, in caso estremo, convinceremo le banche a sottoscrivere i titoli di stato bon gré mal gré, mentre i paesi emergenti (con la benedizione del Fondo Monetario che su questo ha rovesciato di recente la sua impostazione tradizionale) erigeranno barriere ai nostri capitali che cercheranno di emigrare da loro.

A chi rimarrà qua non succederà necessariamente niente di drammatico. I pigri e timorosi che resteranno sul risk free verranno tosati dolcemente e lentamente da tassi reali negativi e da un aumento soft dell’imposizione. I meno pigri riusciranno a bilanciare questi handicap stando in borsa e prendendo qualche rischio.

In capo a qualche anno, però, le differenze si vedranno. Se è vero che il valore di massima degli asset segue il Pil nominale, tra un 3 per cento annuale in Eurolandia e un 15 in India c’è una bella differenza. Una casa raddoppierebbe in euro in 24 anni e in rupie in 5 (con un cambio rupia euro che potrebbe rimanere stabile sul piano nominale).

Nel 2001 Jim O’Neill inventò il concetto di BRIC e in uno studio visionario avanzò l’ipotesi di un sorpasso del nostro Pil da parte di quello degli emergenti entro il 2050. In questi anni il Pil degli emergenti è cresciuto molto più delle stime di O’Neill e si profila in ulteriore accelerazione di lungo periodo in paesi come il Brasile e l’India.

Le badanti filippine che accudiscono i nostri vecchi troveranno sempre meno conveniente venire a lavorare da noi e fra 15-20 anni faremo sempre più fatica a trovarne. Nel 2050, secondo le vecchie previsioni di O’Neill del 2001, il Pil filippino sarà più alto del nostro e i flussi migratori potranno perfino invertirsi.

La riluttanza di molti investitori verso gli emergenti si spiega con esperienze dolorose di volatilità. Chi compra borse emergenti acquista titoli con un beta alto e in più ne compra la valuta sottostante, che sale quando salgono le borse e scende quando scendono. Quando va male si perde tre volte, per la borsa, per il beta e per il cambio. Una volta scottati si diventa diffidenti e per qualche tempo si apprezza la tranquillità del pronti termine in euro.

Per un migliore controllo è allora meglio comprare un rischio alla volta. Comprando un future sulla borsa si evita il rischio di cambio. E’ però molto interessante, in questa fase, formare un portafoglio di valute locali in depositi, titoli di stato, NDF o qualsiasi strumento lecito e liquido su cui si riescano a mettere le mani.

La principale obiezione, degna di Oblomov, è che si tratta di operazioni complicate e che se si va in banca a chiedere di farle si viene cortesemente invitati a farsi passare certe idee. Certo, non sarà magari semplicissimo diventare proprietari, poniamo, di titoli del tesoro filippino in pesos, ma proviamo a pensare quanto deve essere complicata la burocrazia per una signora filippina che voglia venire a fare la badante da noi. Tra noi e loro le cose stanno cambiando in fretta. Copernico è tra noi.

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.