Il possesso di auto d’epoca , un bene di particolare pregio e di elevato valore economico che – come sappiamo – forma oggetto di collezionismo e di particolare ricerca fra gli appassionati , è un evidente indice di una elevata ( se non elevatissima ) capacità contributiva , in quanto il fatto stesso di per sé impone al soggetto proprietario , oltre alle spese di circolazione, particolari esborsi per un’adeguata manutenzione, facendone derivare la conseguenza che è giustificato l’accertamento in via sintetica del reddito complessivo, ai sensi dell’articolo 38, Dpr 29 settembre 1973, n. 600, operato prendendo a base anche tali beni. E’ questa la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione nella sentenza n. 1294 dello scorso 22 gennaio.
La pronuncia della Suprema Corte ha preso spunto dalla vicenda di un contribuente proprietario di quattro autovetture, di cui una “storica”, che si era visto notificare un avviso di accertamento che aveva determinato un maggior reddito imponibile. Avendo presentato ricorso alla Commissione tributaria provinciale competente, tale maggior reddito era stato successivamente ridotto — ma solo parzialmente – proprio in virtù del fatto che una delle automobili possedute era da considerarsi auto d’epoca.
Una visione ovviamente non accettata dal contribuente il quale proponeva appello alla Commissione tributaria regionale , sostenendo che le auto d’epoca andavano escluse totalmente dalla determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche. L’organismo respingeva questo appello affermando che il mantenimento di tali beni è sicuro indice di capacità contributiva, visto che esse comportano, notoriamente, spese a volte anche ingenti.
Da qui il ricorso alla Corte di Cassazione, con la motivazione che l’ auto d’epoca doveva essere esclusa dall’accertamento sintetico del reddito, in quanto non posseduta per soddisfare esigenze di circolazione ma per puro collezionismo . Per il contribuente dunque era da respingere il teorema in base al quale possedere auto d’epoca significhi necessariamente metterle in circolazione . Una tesi, secondo lo stesso contribuente che aveva proposto il ricorso , avvalorata dal fatto che il Secit (acronimo di Servizio consultivo e ispettivo tributario) del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in un suo parere, avrebbe escluso le auto e moto di interesse storico e collezionistico, dall’applicazione del cosiddetto “redditometro”, proprio perché non sarebbero idonee a soddisfare le esigenze della circolazione e, quindi, non idonee a far sorgere spese quotidiane relative alla loro utilizzazione “su strada” .
La vicenda è stata definitivamente affrontata dalla Corte di Cassazione che ha respinto l’appello mettendo la parola fine alla questione e confermando quanto sancito dai primi due gradi di giudizio. Secondo la Suprema Corte, infatti, è risaputo che le autovetture cosiddette “storiche” o “d’epoca” “…formino oggetto di collezionismo e di particolare ricerca fra gli appassionati di tali beni, è notorio che esiste un particolare mercato per tali tipi di veicoli, oggetto di attenzione da parte dei suoi consumatori, così come è notorio che la manutenzione di tali veicoli, ormai fuori produzione da tempo, comporti rilevanti costi, per tutte le necessità di manutenzione e sostituzione dei componenti soggetti a usura…”.
Sulla base di tali motivazioni , tali beni mobili registrati devono essere giustamente presi in considerazione ai fini della determinazione della capacità contributiva del soggetto proprietario in quanto le spese di mantenimento non sono legate esclusivamente all’utilizzo funzionale su strada . E’ dunque legittimo includere — come fatto sia dalla Commissione tributaria provinciale che dalla Commissione tributaria regionale – nei cosiddetti redditometri il possesso di auto , comprese quelle storiche e d’epoca e , in tale senso, per la Cassazione nessuna influenza decisiva sulla soluzione del caso può avere un diverso parere, reso da un organo consultivo dell’Amministrazione finanziaria, quale è il Secit.
di Alberto Savarese