(WSI) – L’acquisto da parte della compagnia elettronica Lenovo della Ibm computer è un episodio, per ora il più vistoso, della strategia di shopping cinese di aziende, know how e marchi occidentali. C’è una somiglianza in queste scelte con quello che hanno fatto i giapponesi nel Dopoguerra, quando si aprirono allo sviluppo capitalistico cercando in occidente i modelli e le occasioni per avviare un processo di integrazione e sviluppo omogeneo.
Nell’economia dei mercati globali, che la Cina investa in imprese occidentali ha, di per sé, elementi positivi. Se non altro, saremo più sicuri, politicamente ed economicamente, perché i cinesi dovranno preoccuparsi dei loro investimenti esteri e non solo di ciò che riguarda direttamente la madrepatria. Un discorso analogo si può fare sui petrolieri pubblici e privati dei paesi dell’Opec, che hanno investito una parte rilevante dei loro proventi nei ricchi paesi occidentali consumatori: e debbono perciò darsi carico delle conseguenze della loro condotta su queste nostre economie.
C’è però una grossa differenza rispetto al Giappone e agli operatori dei paesi Opec: l’economia giapponese, benché dirigista e gerarchica, era ed è una economia di mercato. E le imprese che hanno investito in occidente, come la Toyota, seguono una seria logica economica, costituendo spesso un modello per americani ed europei. Gli operatori dei paesi Opec non partecipano, generalmente, alla gestione delle imprese in cui investono, si limitano alla sfera finanziaria e alla sua logica. La Lenovo è, invece, un’impresa di Stato, la Cina è un’economia in gran parte collettivistica.
Gli investimenti non si limitano a esportare modelli di capitalismo in oriente, inseriscono elementi di statalismo nelle nostre economie, con logiche i cui effetti non siamo ancora in grado di giudicare. E che forse nemmeno gli imprenditori e i tecnocrati cinesi, metà collettivisti e metà capitalisti, possono immaginare. Sicché vale il motto per le cose di pregio ma rischiose: “Maneggiare con cura”.