Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) –
Mentre in Italia la novità pubblicitaria è
il ritorno del pupazzo Carmencita della
Lavazza o Giovanni Rana che va in casa
delle famiglie portando i propri prodotti
confezionati, in Inghilterra, un mese fa, i
network televisivi trasmettevano questo
spot: una stanza grigia, una serie di sedie in
cerchio, una lavagnetta su un angolo, la tipica
situazione da gruppo per la riabilitazione
psicologica da qualche dipendenza.
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Da un intervento si capisce che si parla di
gestione della rabbia. A un certo punto si
alza una bella donna nera. E’ Naomi Campbell.
Non appena si presenta agli altri componenti
del gruppo, ecco che compare alla
sua destra un cartello con il prezzo del vestito
che indossa. Naomi viene presa da un
attacco d’ira. Mentre la moderatrice tenta
di calmarla, compare in sovrimpressione il
logo del marchio Cherokee, la linea di abbigliamento
dei grandi magazzini Tesco.
Questo è solo il primo di una serie di spot
che utilizza, con registro ironico, il carattere
rissoso della celebrity Naomi per pubblicizzare
un prodotto: in altri episodi la
Campbell, continuamente tempestata dai
cartelli, dopo aver sfasciato hall di albergo
e discoteche, viene arrestata.
L’uso del testimonial e la percezione del
pubblico in questi ultimi anni sono mutati
radicalmente, ma una buona parte delle
aziende e dei pubblicitari non se ne sono
ancora accorti. Da una recente ricerca condotta
on-line da Phatagnat e Key Comments
tra i giovani di lingua inglese tra gli 11 e i 25
anni, è risultato che la presenza di una celebrità
come testimonial è l’ultimo motivo
che li spinge a comprare un prodotto. Le
aziende più moderne trattano oggi il proprio
brand come se si trattasse di una persona
con il suo carattere e le sue incompatibilità.
Di conseguenza anche il testimonial
viene scelto secondo una logica di affinità
e di sensibilità, e non soltanto per criteri
estetici o di notorietà. L’uso del testimonial
in pubblicità è da sempre una “Croce
e Delizia” (come il titolo di un libro scritto
da Viviana Musumeci e uscito per Ediforum
lo scorso anno): delizia per i manager
d’azienda che preferiscono scegliere una
celebrity per “massaggiare il proprio ego”
o emulare competitor e concorrenti; croce
per i pubblicitari perché l’uso del testimonial
non viene considerato creativo. Con
questa nuova concezione è invece possibile
sperimentare e lavorare anche sui difetti
del testimonial.
Campagne no profit
Da questo punto di vista le novità più interessanti
si trovano nella cosiddetta “pubblicità
no profit”. Sempre più lo star system
si sta affermando come uno dei più straordinari
mezzi di “evoluzione sociale”. Per la
campagna “One” dell’associazione “Make
Poverty History”, a favore dell’annullamento
del debito verso i paesi dell’Africa,
in cui celebrità come Al Pacino, Cameron
Diaz o Brad Pitt si mostravano alla telecamera
senza trucchi di scena: una campagna
così efficace da essere stata bandita in
Gran Bretagna in quanto “mirava a cambiamenti
importanti nelle politiche del governo
e in quelle di altri governi occidentali”
e quindi contro le regole della pubblicità
in televisione.
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