Il balletto intorno alla Fiat ha movenze grottesche. I competenti pasticciano, ché quello è spesso il loro mestiere. Invece è tutto molto semplice.
L’azionista non crede più da molti anni nel futuro della Fiat Auto, cioè nella possibilità strategica di resistere da soli come produttori italiani di automobili.
Hanno drasticamente disinvestito e perso quote di mercato, come era logico; hanno diversificato mettendo altrove le risorse (assicurazioni, energia, provarono anche con Telecom Italia); hanno prevenduto agli americani della General Motors e si sono gravemente indebitati; hanno elaborato un piano industriale e finanziario d’emergenza per fronteggiare la crisi galoppante.
Ora però lo sviluppo precipitoso della crisi finanziaria e di prodotto fa della questione Fiat un caso nazionale. E nella comoda confusione politica conseguente riemerge a destra e a sinistra e al centro, come scrive l’Economist, l’atavismo ovvero il vecchio riflesso condizionato di accollare al pubblico in un modo o nell’altro le conseguenze sociali della caduta di un grande business industriale, che ha fatto la storia del paese.
Invece no. Non siamo un’economia autarchica, come negli anni Trenta, e non possiamo rifare l’Iri. Non siamo uno Stato assistenziale di marca democristiana, con il suo sistema di compensazioni ed equilibri capace di produrre un debito pubblico doppio della media europea, e non possiamo “salvare la Fiat”.
Non siamo più un paese ulivista, che deve rendere conto sull’attenti alla pressione sindacale e procurarsi il favore dell’establishment dei grandi gruppi a tutti i costi. Ma che cosa siamo?
Dovremmo essere qualcosa di simile a un normale paese europeo, nel contesto delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni e delle riforme del mercato del lavoro, nel quadro delle regole del mercato unico e della concorrenza.
Se l’auto italiana non ha futuro nonostante il rilevante appoggio pubblico di cui ha goduto e l’eliminazione sedici anni fa di ogni tipo di concorrenza (l’affaire Alfa-Ford), l’azienda che produce auto (e che questo lo sa da un pezzo, tanto è vero che è stata prevenduta agli americani) deve seguire il suo corso di mercato.
L’auto alla GM, debiti saldati con le banche, e lo Stato che affronta con mezzi ordinari (non sono irrilevanti) le conseguenze sociali della ristrutturazione aziendale.
I campioni dell’industria nazionale non s’inventano. Se l’auto italiana avesse un futuro nel mercato, saremmo tutti felici di darle una mano nell’emergenza. Siccome non è così, e lo sappiamo, il governo non perda tempo nelle finezze e negli atavismi, e usi le risorse pubbliche disponibili e le riforme necessarie a frustare l’economia italiana per sollecitare la creazione di posti veri di lavoro.
Tenere in piedi campioni che hanno perso il campionato è solo una stoltezza autolesionista.
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