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CON MONTEZEMOLO IL CAPITALISMO HA PERSO

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(WSI) – Scompare l’Italia industriale ma la classe dirigente non comprende neppure quanto questo sia grave, perché la classe dirigente nazionale è la causa stessa di questa decadenza. Il declino della Fiat è la conseguenza di tre patologie: l’intreccio fra i vizi del capitalismo familiare, quelli del capitalismo di Stato, e quelli di un sistema bancocentrico. Un capitalismo senza capitali e uno Stato indebitato hanno congiurato a impedire lo sviluppo. Di fronte al drammatico declassamento del nostro paese, l’unica reazione che sento affiorare è la nostalgia di ricette antiche, anacronistiche e fallimentari. Per esempio un neodirigismo strisciante, che l’Italia di oggi non si può più permettere”. La morte di Umberto Agnelli, l’avvento di Luca di Montezemolo ai vertici della Fiat, la denuncia del governatore della Banca d’Italia sulla perdita di competitività del paese: ne parliamo con il giurista Guido Rossi, grande conoscitore del capitalismo italiano.

In quale misura la vicenda Fiat e la scomparsa della grande industria nazionale si spiegano con il capitalismo familiare?
“Un peccato originale che ha contribuito a indebolire la Fiat è la struttura delle scatole cinesi e del controllo piramidale: marchingegni tipicamente italiani, architettati per garantire il potere della famiglia con il minimo investimento di capitali propri. Parallelamente le holding di famiglia e il gruppo per decenni hanno investito ovunque al fine di diversificare i rischi: dal turismo alle assicurazioni, dai supermercati al nocciolino duro Telecom e infine, nel peggior momento della crisi dell’auto, a Italenergia. Proprio mentre la crisi mondiale dell’automobile richiedeva investimenti imponenti, loro si rivolgevano altrove. Sono fenomeni di diversificazione che hanno contagiato molti grandi gruppi italiani. Il capitalismo familiare con i suoi patti di sindacato e la sua opacità ritarda l’assunzione di responsabilità, cerca di sfuggire alla crisi correndo sotto l’ombrello protettivo dello Stato e delle banche. Si creano quelle “mostruose fratellanze siamesi” denunciate mezzo secolo fa da Mattioli: un altro modo per dire conflitti d’interessi. Il sistema bancario continua a essere il centro di tutto ma non risponde di niente. In questo disastro non mi convincono gli appelli a rilanciare il ruolo pubblico, che sento anche a proposito dell’Alitalia. Vogliamo creare una nuova Iri? Per farlo dovremmo uscire dall’Europa”.
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La presidenza Montezemolo è destinata a traghettare quel che resta del gruppo Fiat verso l’approdo di una public company?
“Non credo. L’esistenza di una moderna public company in Italia è un’utopia. Il mercato finanziario è minuscolo. La legislazione favorisce la mancanza di trasparenza. In quanto alla famiglia Agnelli, anche dopo la tragica scomparsa di Umberto ha dimostrato di mantenere un ruolo non simbolico. Nell’arco di un weekend si sono riuniti, hanno deciso loro il presidente e l’ad. Tenuto conto della quota di capitali che hanno nel gruppo, non è un episodio edificante di corporate governance. La moderna democrazia societaria è ancora un traguardo lontano”.

Montezemolo ora cumula la presidenza della Fiat e della Confindustria nonché la proprietà o l’influenza su tre quotidiani nazionali: Stampa, Corriere della Sera, Sole 24 Ore. La sua nomina in Confindustria era stata salutata come una positiva presa di distanza degli industriali dal berlusconismo. Montezemolo manterrà spirito critico verso il governo ora che deve gestire gli interessi Fiat?
“Per cominciare trovo sempre più anomala questa Confindustria in un paese che non ha più industria. Le associazioni imprenditoriali straniere, come il Cbi inglese e il Medef francese, hanno meno visibilità politica, in compenso hanno avuto un ruolo utile nel dettare codici di comportamento e regole di corporate governance avanzate ai propri iscritti. Al contrario la nostra Confindustria ha sempre fatto battaglie di retroguardia che hanno nuociuto alla tutela dei piccoli azionisti e dei risparmiatori. Montezemolo ora eredita la tradizione filogovernativa della Fiat, ed eredita un’azienda in difficoltà che può avere bisogno nuovamente di aiuti pubblici. L’intreccio tra imprese e politica continua a esercitare un’attrazione perversa. Ma il suo primo discorso in Confindustria lascia ben sperare. Si è rivolto ai sindacati, ha riparlato di concertazione, cambiando linguaggio rispetto al suo predecessore. Forse è un segno dei tempi: oggi la concertazione può giovare di più di un abbraccio al governo Berlusconi, che ormai non è in grado di offrire niente”.

In teoria uno dei pochi vantaggi del capitalismo familiare dovrebbe essere quello di garantire la stabilità dell’azienda. Ma avendo cambiato cinque amministratori delegati in cinque anni, nessun gruppo automobilistico mondiale ha subìto tanta instabilità quanto la Fiat.
“Come i governi della Prima Repubblica. Il capitalismo familiare garantisce la stabilità della proprietà attraverso sistemi non sempre trasparenti, ma non può garantire la stabilità della gestione. Anzi, in questa situazione anomala i manager non si sentono sicuri finché non riescono a mettere un piede nella proprietà, come ha tentato di fare Morchio”.

La vendita della Fiat auto a una casa straniera, paventata ancora pochi anni fa come una catastrofe, oggi sembrerebbe una salvezza. L’Italia può permettersi il “nazionalismo industriale” di Francia e Germania?
“Dubito che nel lungo termine sia vincente anche quel nazionalismo che organizza il salvataggio di Alstom a spese del contribuente francese. In ogni caso il problema non si pone neppure in un’Italia che non ha più la grande industria. E non confondiamo la causa con l’effetto. La chimica italiana è morta per colpe italiane molto prima che arrivassero le multinazionali straniere a comprarsi quel poco che ne restava. L’industria dell’auto è entrata in crisi pur avendo nazionalisticamente impedito alla Ford di comprarsi l’Alfa Romeo. Non mi preoccuperei di chi sarà l’azionista di maggioranza di Fiat auto, quel che conta sono le riforme di sistema. In mancanza di quelle, mi spaventa il fatto che gli stranieri non arrivano perché preferiscono investire altrove. Se poi il nazionalismo all’italiana è la premessa per rilanciare il capitalismo di Stato, le Partecipazioni statali, allora siamo spacciati”.

Montezemolo con la Ferrari, Armani, Della Valle: oggi i nomi noti del capitalismo italiano si identificano con queste marche di prestigio all’estero. E’ un capitalismo diverso dai tempi in cui l’Italia aveva grandi imprese presenti sui mercati mondiali della siderurgia e della farmaceutica, dell’auto e dell’informatica. Anche la scelta di un manager italo-canadese sembra indicativa: l’Italia fa fatica a formare una classe dirigente dell’economia che sia competitiva sui mercati globali?
“Il dramma è proprio che l’Italia non forma più nessuna classe dirigente, in nessun settore. E’ qui che stiamo perdendo contatto con gli altri paesi, distanziati da tutti. Il capitalismo familiare che ha puntato sulla finanza e sulle rendite monopolistiche non ci ha certo aiutato, ma le responsabilità non si fermano lì”.

Mentre il governatore della Banca d’Italia denuncia la nostra perdita di competitività, lei che cosa pensa del ruolo dominante delle banche nel capitalismo italiano di oggi? Le vediamo protagoniste in tutte le vicende, dalla Parmalat alla Fiat.
“La diagnosi macroeconomica di Fazio sul declino nazionale è giusta, il suo severo bilancio della politica economica del governo è ineccepibile. Non individua però tutte le cause. Fazio difende un sistema bancario che invece è parte della malattia: protetto, non competitivo, non risponde dei danni che fa. D’altra parte il degrado della classe politica porta a esiti sconcertanti: di fronte a drammi come Cirio e Parmalat, nei palazzi del potere si occupano di quanti anni deve durare in carica il governatore della Banca d’Italia. Quegli scandali gravi, che dovevano essere l’occasione per un ripensamento generale delle regole del sistema, sono stati ridotti a occasioni per regolamenti di conti”.

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