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COME INVESTIRE: GREGGIO, NIKKEI, TITOLI DELL’ ORO

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(WSI) – TEMI CALDI PER GLI INVESTITORI Tre eventi hanno agitato la settimana finanziaria: il nuovo massimo della Borsa nipponica; la vetta toccata dalle azioni aurifere; l’andamento ballerino del petrolio che tiene col fiato sospeso gli operatori. Ma andiamo con ordine. Dal minimo del 2003, il Nikkei è salito di circa l’85% accelerando negli ultimi mesi. Secondo il sondaggio mensile di Merrill Lynch fra 290 gestori internazionali, la Borsa di Tokyo è quella con le migliori prospettive di crescita in termini di utili, la più sottovalutata rispetto ai fondamentali e quella sulla quale gli operatori professionali desiderano avere la massima esposizione.

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Dato il grande ottimismo sul Sol Levante, c’è da domandarsi se tutti abbiano già comprato e convenga quindi prendere beneficio, o se al contrario sia opportuno mantenere le posizioni. «A mio giudizio, siamo solo all’inizio di un ampio movimento – spiega Richard Davidson, del fondo Lansdowne Partners – Certo, il denaro è fluito copioso dall’estero, ma i giapponesi sono rimasti alla finestra. Rifiutano di mettere azioni in portafoglio. Quando si accorgeranno che le obbligazioni nazionali rendono meno di niente e il Nikkei corre a briglie sciolte, cambieranno idea alimentando una nuova corsa agli acquisti».

La considerazione di Davidson non è da poco, in quanto circa il 75% della Borsa nipponica è in mano agli investitori domestici, che non si sono ancora mossi. Anzi. Secondo i dati raccolti dal gestore inglese, i giapponesi hanno venduto titoli nel 2003, 2004 e 2005. Insomma, le società quotate ripartivano dal minimo degli ultimi 20 anni e loro scaricavano. «In verità – chiarisce Davidson – si tratta di un comportamento storicamente frequente: per esempio, quando il Dow Jones in America toccò il fondo nel 1974, il rimbalzo fu accolto con scetticismo. Ci vollero quattro anni prima che la raccolta dei fondi tornasse positiva. Lo stesso si è verificato in Italia negli anni ’80. Perciò, se i giapponesi seguiranno questa falsariga, c’è buona probabilità che tornino sul mercato nel 2006. E potrebbero innescare la seconda gamba rialzista».

A conforto degli ottimisti, quasi ogni settimana arrivano notizie positive: fra le altre, il valore dei terreni nella capitale si sta apprezzando per la prima volta da 14 anni; gli uffici vuoti sono al minimo dal 2002 e i prestiti bancari hanno svoltato in positivo dopo tempo immemore; la spinta all’export favorita dal basso yen. Il basso livello dei tassi, infine, sta convincendo le famiglie a svuotare i depositi presso le Poste (di gran lunga la banca più ricca per depositi del pianeta) per riprendere la strada del Kabuto cho, la Borsa abbandonata ormai da dieci anni e più. Davidson parla con entusiasmo anche delle valutazioni, soprattutto di un rapporto p/u tra i più bassi del mondo industrializzato: «Il multiplo sugli utili è circa 9 volte i profitti previsti per il 2006, la metà rispetto agli Usa e inferiore al dato europeo».

Commenta Paul Kasriel, capo economista della Northern Bank di Chicago: «Il fatto che l’oro tenga la soglia record di 480-490 dollari l’oncia, nonostante euro, yen e sterlina siano franate rispetto al dollaro, conferma il malessere che accomuna le valute. Sicché l’oro veste i panni del trionfatore». Dello stesso parere anche David Watt, che guida dalla Malaysia un hedge fund specializzato in azioni aurifere: «In passato il mercato toro dei metalli preziosi rifletteva semplicemente la debolezza del dollaro; stavolta l’apprezzamento è a trecentosessanta gradi». A beneficiarne sono state le aziende aurifere, scattate in settimana sui massimi, e ancora di più se ragioniamo in euro. Su cosa puntare? «Quando si parla di società estrattive – risponde Watt – occorre sempre ricordare la battuta di Marc Twain, secondo cui una miniera non è altro che un buco in terra con un bugiardo che gli sta davanti.

Insomma, grande prudenza e diversificazione. Mai giocare su un singolo titolo. Al momento le small cap – continua Watt – sono scambiate a sconto rispetto alle società a larga capitalizzazione. Ma queste ultime offrono una solidità superiore. Le mie preferite sono Goldfields e Newmont, perché il management non vende a termine la produzione (e si avvantaggia degli aumenti di prezzo dell’oro, ndr)».

In settimana si è registrata anche la ripresa dei petroliferi. Qui c’è poco da tergiversare. A qualunque analista si chieda, la risposta è univoca: le quotazioni delle varie Eni, Total, Exxon e via dicendo risultano appetibili ai livelli attuali del barile. Il pericolo ruota attorno a un eventuale crollo dei prezzi dell’energia. «Crollo che non ci sarà», secondo Narimann Behravesh, stratega del prestigioso centro di ricerche Global Insight. «Meglio puntualizzare – asserisce – Né le Nazioni esportatrici né i colossi del settore hanno accresciuto sensibilmente l’attività di ricerca ed esplorazione. Le cifre sono incontrovertibili su questo punto. E senza nuove riserve, negli anni a venire la domanda schiaccerà l’offerta».

Altri osservatori spiegano poi che la correzione dai 70 dollari al barile toccati l’estate scorsa è stata indotta da fattori eccezionali. «Penso allo scioglimento temporaneo delle restrizioni ambientali – spiega David Kotok, di Cumberland Advisors – Una decisione mirata ad abbassare il costo dei prodotti distillati. Oppure alla sospensione del Jones Act, in base al quale il trasporto delle benzine può aver luogo esclusivamente attraverso vettori di bandiera. Oppure, penso alla messa in commercio delle riserve strategiche. Si tratta sempre di operazioni una tantum e non strutturali. E ciònonostante il greggio continua a veleggiare alto».

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