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(WSI) –
Meno male che ogni tanto approda
dalle nostre parti – per sbaglio,
come una balena che, smarrita la
rotta, sia andata a insabbiarsi su una
qualche spiaggia del New England –
qualcosa che viene a distrarci dalle
veroniche e dai pippi baudi. Un oggetto
alieno che ci fa intravedere,
fosse solo per un istante, i contorni
di un mondo che sta cambiando senza
di noi.
Scordatevi Dave Eggers, scordatevi
Jonathan Safran Foer: Tokyo
Cancelled di Rana Dasgupta, appena
tradotto da Feltrinelli, è il più bell’esordio
letterario della nostra generazione.
Una specie di mille e una notte
del terzo millennio che ti prende
per mano e, come in un sogno, ti trasporta
nelle viscere della globalizzazione.
Tredici racconti, narrati da altrettanti
personaggi, bloccati per una
notte in un aeroporto imprecisato,
che parlano di bioingegneria e di immigrazione
clandestina, di crisi finanziarie
e di terrorismo batteriologico,
senza mai impiegare neppure
una di queste parole orrende. Ma recuperando,
al contrario, la struttura
narrativa della fiaba, trasfigurando
l’attualità nella dimensione del mito.
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Il mondo di Dasgupta è popolato di
castelli e di principesse, di gemelli separati
alla nascita e di pozioni magiche.
E però ci racconta l’oggi meglio
di Thomas Friedman, di Federico
Rampini e di tutti i notiziari
della Cnn messi assieme.
Perché la scommessa dell’autore
è quella di descrivere
il mondo senza
spiegarlo, scaraventando
i suoi personaggi
ai quattro angoli
del pianeta e osservandoli
mentre
si mettono alla ricerca
di un minuscolo
spazio dove
sentirsi a casa.
«Il valore dell’esperienza è crollato.
E continua a precipitare in una
spirale senza fondo. Una qualunque
occhiata a un giornale lo conferma:
la nostra rappresentazione, non solo
del mondo esterno, ma anche della
morale, ha subito da un giorno all’indomani
cambiamenti che non avremmo
mai creduto possibili». Così scrive,
annoiato, seduto nel solito caffè, il
filosofo tedesco Walter Benjamin.
E, in parte, ha ragione. Davvero,
di fronte alle trasformazioni
epocali che
rimbalzano ogni giorno
dai media, l’esperienza
diretta di ciascuno
di noi sembra
ben poca cosa. Tutt’al
più, il pallido riflesso
di fenomeni infinitamente
più grandi,
la conseguenza
secondaria di
decisioni da tempo
assunte altrove.
E però, chissà
come, alcuni autori continuano
ostinatamente a smentire
questa tesi. È il caso di Salman Rushdie,
che ha prefigurato nelle sue opere,
ancor prima di viverlo sulla sua
pelle, il risveglio delle fratture etnico-
religiose del dopo guerra fredda.
È il caso di Michel Houellebecq, che
ha vivisezionato con gelida ironia l’edonismo
post-sessantottesco che abbiamo
ereditato dai nostri padri. E
oggi è il caso di Rana Dasgupta, classe
1971, educato a Oxford e residente
a Nuova Delhi, che infila nel suo
cappello gli ingredienti standardizzati
dei quali è fatta la nostra esistenza:
la noia delle attese in aeroporto e
l’orgasmo dello shopping compulsivo,
il rituale dell’e-mail e la banalità
dei piatti surgelati. E ne estrae, come
per magia, tutto ciò di cui sentivamo
la mancanza: il mistero e la sorpresa,
la singolarità e l’amore.
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