Wall Street insegue la Cina. Il motivo e’ presto detto: stando alle stime di Goldman Sachs in termini di capitalizzazione il mercato cinese raggiungera’ i $41000 miliardi entro il 2030 dagli attuali $5000. Se la previsione verra’ centrata, la piazza finanziaria del Paese dei Dragoni diventera’ la piu’ grande al mondo. Anche quella americana crescera’, ma nello stesso arco temporale la corsa si fermera’ a $34000 miliardi dai $14000 odierni.
Non e’ un caso se le grandi banche americane, ma anche quelle europee, monitorano con attenzione il mercato asiatico. Non lo e’ neppure il fatto che i big del settore abbiano uffici in quel territorio. E’ il caso di Goldman Sachs, Morgan Stanley e JP Morgan che fungono da ponte di collegamento tra aziende asiatiche (spesso controllate dallo stato) e i capitali stranieri. In questo caso gli istituti hanno saputo insinuarsi laddove le banche cinesi non sono ancora arrivate, ossia nella costruzione di una rete distributiva internazionale. Ma cosa succedera’ quando a livello locale le banche stesse sapranno fare altrettanto? Alcuni banchieri stranieri temono che vadano in fumo gli investimenti di anni di attivita’ con un know-how che rischia di finire proprio in mani cinesi. “Sostanzialmente e’ in atto un trasferimento di competenze…dopodiche’ i cinesi chiuderanno la porta. Lo hanno fatto cosi’ tante volte”, ha spiegato Gordon Chang, autore del libro “The Coming Collapse of China”
I debutti cinesi in borsa hanno raggiunto il valore di $56 miliardi da inizio anno, oltre cinque volte quanto messo a segno dieci anni fa. Crescita che dimostra l’interesse anche delle istituzioni finanziare straniere: in primavera l’AD di JP Morgan, Jamie Dimon, quello di Deutsche Bank, Josef Ackermann, e i vertici di Morgan Stanley sono volati direttamente a Pechino per seguire da vicino l’IPO di Agrucultural Bank of China.
“Puoi venire qui e comportarti esattamente come faresti a New York, operando nello stesso modo”, ha dichiarato Philip Partnow, che guida l’M&A in Cina per conto di Ubs.
Non ci sono dubbi che la piazza asiatica sia attraente, ma non mancano gli ostacoli a cominciare da rigide regole, conflitti culturali e di tipo politico. “In qualche modo i cinesi vogliono arrivare al punto in cui non avranno bisogno delle banche di investimento straniere”, ha aggiunto Michael Werner, analista di Sanford Bernstein con sede a Hong Kong.
C’e’ chi non manca di ricordare la bolla immobiliare sempre all’orizzonte. E’ il caso di James Chanos, l’hedge manager che seppe prevedere la fine di Enron. Da inizio anno scommette che la bolla del real estate cinese stia per esplodere. “Non credo che le cose si metteranno bene. Gli ottimisti credono che le autorita’ cinesi faranno di tutto per sgonfiare gli eccessi ma la storia non e’ dalla loro parte”.
Stando a Chanos non e’ tutto oro quello che luccica a Pechino. Tradotto: le banche di Wall Street farebbero bene a starsene dove stanno nel lungo termine. “La Cina non sara’ il driver dei loro profitti”, ha commentato. Ricordando una frase dell’AD di Citigroup Charles Pandit pronunciata prima della crisi immobiliare Usa (“Fino a quando la musica suona, bisogna ballare”), Chanos ha detto che “quando i tuoi rivali fanno qualcosa, tu devi fare altrettanto. Ma credo che tutti stiano dimenticando qualcosa”.