*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino, il piu’ importante quotidiano svizzero in lingua italiana. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – La corsa verso la Cina si allarga anche alle banche europee ed americane, come conferma l’interesse di UBS per una partecipazione nella Bank of China, mentre la fame di petrolio del gigante asiatico ha spinto la terza compagnia petrolifera cinese a sfidare gli Stati Uniti gettando sul piatto 18,5 miliardi di dollari per sottrarre alla ChevronTexaco l’americana UNOCAL.
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Queste due notizie meritano alcune riflessioni. L’interesse per le banche cinesi da parte degli istituti europei ed americani è, da un canto, un fenomeno relativamente recente, e, d’altro canto, impressionante per la rapidità con il quale si sta manifestando. Infatti, l’interesse di UBS per una partecipazione azionaria in Bank of China avviene a pochi giorni dall’annuncio dell’investimento di 3 miliardi di dollari da parte di Bank of America per una partecipazione del 9% in China Construction Bank, dell’investimento di circa 1,4 miliardi di dollari del gigante europeo HSBC per una partecipazione del 19,9% nella cinese Bank of Communications e dopo gli investimenti dell’olandese Ing, della britannica Standard Chartered e dell’americana Citigroup in istituti bancari di alcune municipalità cinesi.
L’aspetto più clamoroso è che il sistema bancario cinese era ritenuto fino a pochi anni orsono tecnicamente in stato fallimentare, poiché gravato da un enorme ammontare di crediti in sofferenza dovuti al fatto che il Partito comunista ha utilizzato il sistema bancario quale strumento per tenere in vita il grande settore delle industrie di stato per timore che il loro collasso portasse ad un’impennata della disoccupazione e quindi a gravi tensioni sociali.
Lo stato di crisi del sistema bancario era riconosciuto anche dalle autorità di Pechino, le quali però anche in vista della liberalizzazione del mercato dei servizi bancari prevista dall’accordo di adesione della Cina al WTO per l’inizio del 2007 hanno varato un piano di risanamento che sta dando risultati superiori a qualsiasi ottimistica previsione. Il piano ha avuto finora tre tappe. La prima è stata la creazione di società speciali create dallo Stato, cui sono stati trasferiti circa 240 miliardi di dollari di crediti in sofferenza. La seconda tappa è stata l’iniezione nel capitale delle tre grandi banche cinesi di circa 75 miliardi di dollari prelevati dalle riserve monetarie accumulate dalla banca centrale cinese.
La terza tappa è stata la ristrutturazione di queste strutture gigantesche (con la chiusura di migliaia di sportelli e la riduzione di decine di migliaia di dipendenti) e il collocamento di una quota di minoranza del loro capitale sulla borsa di Hong Kong per raccogliere ulteriore capitale fresco. Per raggiungere questo scopo le banche cinesi hanno aperto le porte alle banche occidentali, di modo che in qualità di investitori strategici di quote azionarie significative accrescessero notevolmente le possibilità di successo delle Offerte iniziali di acquisto rassicurando i piccoli investitori occidentali.
La strategia sembra funzionare alla perfezione. Infatti il collocamento in borsa a Hong Kong di una quota minoritaria della Bank of Communications si è concluso la settimana scorsa con un grande successo. Lo stesso percorso è previsto per la Bank of China, il terzo istituto cinese, che sta ora cercando degli investitori strategici (e l’UBS potrebbe essere uno di questi) per preparare il suo sbarco in borsa. I risultati sono impressionanti: il sistema bancario cinese che gli analisti occidentali ritenevano oberato da un 50% di crediti a rischio in pochi anni ha ridotto questa quota abbondantemente al di sotto del 10%.
Ad esempio, la Bank of China sostiene ora che solo il 4,55% dei propri crediti è a rischio. Le ragioni di questo rapido risanamento spiegano anche la corsa delle banche occidentali in Cina. Oltre agli interventi statali e alla ristrutturazione, già citati in precedenza, le banche cinesi hanno sapientemente sfruttato il boom economico del paese per cambiare la sostanza della struttura del loro bilancio: hanno ridotto la quota parte dei crediti ai grandi conglomerati statali ampliando il credito al consumo, puntando sui crediti ipotecari grazie alla liberalizzazione del mercato immobiliare (ossia attività a minore rischio) ed espandendo i servizi finanziari che producono commissioni.
Ed è proprio in questo campo che si concentra l’interesse delle banche occidentali: ossia partecipare all’ampliamento di quei prodotti finanziari (fondi di investimento, ecc.) in cui convogliare l’enorme risparmio delle famiglie cinesi e dei servizi (carte di credito, ecc.) al grande mercato cinese. Dunque, da un profilo aziendale la scelta delle banche occidentali di puntare sulla Cina è assolutamente giustificata dal timore di essere esclusi da quello che è già oggi uno dei più importanti mercati del mondo.
Mentre le banche occidentali corrono in Cina, la fame di materie prime e soprattutto di petrolio del gigante asiatico ha spinto la CNOOC, la terza compagnia petrolifera cinese, a sfidare la major americana ChevronTexaco per la conquista della compagnia petrolifera UNOCAL. Questa scelta non mancherà di provocare una violenta reazione politica negli Stati Uniti dove sta visibilmente crescendo una specie di «sinofobia» a causa dei crescenti successi commerciali dei cinesi sul mercato americano. È difficile ritenere che l’iniziativa della CNOOC, che è detenuta dallo Stato ad eccezione di una quota del 5% del capitale azionario quotata ad Hong Kong, non abbia ricevuto l’avallo del governo di Pechino. È pure difficile ritenere che quest’ultimo non sappia che questa mossa contribuirà a deteriorare le già difficili relazioni con Washington.
Quindi, anche se un compromesso appare possibile con l’assegnazione ai cinesi delle attività estrattive in Asia di UNOCAL e di quelle negli Stati Uniti alla ChevronTexaco, questa iniziativa deve essere letta anche come la volontà di Pechino di gettare sul piatto un’altra pesante carta da giocare nei complessi negoziati con Washington che non riguardano solo le questioni commerciali e valutarie, ma anche quelle geostrategiche.
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