Le autorità di mercato cinesi premono perché le matricole cinesi scelgano le Borse continentali, Shanghai o Shenzhen, invece di andare sulla piazza di Hong Kong. Lo riferiscono numerosi investment banker all’agenzia Reuters. Anche se smentito a livello ufficiale, un orientamento della China Securities Regulator Commission (Csrc, la Consob cinese) in tal senso, dicono i banchieri, esiste e potrebbe danneggiare la Borsa di Hong Kong, dove lo scorso anno la fila di titoli basati in Cina continentale che sono andati a quotarsi sul cosiddetto “listino H” rendono l’isola la seconda sede di collocamenti a livello mondiale.
“Il Governo non ha emesso direttive esplicite in un senso o l’altro”, ammette uno di loro, che sta lavorando a più di un collocamento, “ma è chiaro che ci sono degli indirizzi interni e che, in generale, collocamenti su Hong Kong per meno di un miliardo di dollari Usa non avranno il via libera”. Per disciplinare un mercato che pare poco controllabile e speculativo, Pechino blocca i collocamenti per un anno e nuovi collocamenti possono partire solo dallo scorso giugno, in coincidenza con la spettacolare ripresa 2006 della Borsa di Shanghai (più 134 per cento l’indice). Sulle piazze continentali, Shanghai e Shenzhen, sono collocati lo scorso anno 14,6 miliardi di dollari di capitale, secondo Dealogic, al traino di colossi già quotati a Hong Kong che raddoppiano la posta a Shanghai. Da inizio 2007 le matricole di Hong Kong, che resta la seconda piazza asiatica dopo Tokyo, sono valorizzate 741 milioni di dollari, mentre nel continente la raccolta è di 2,77 miliardi. L’indebolimento di Hong Kong come hub della finanza cinese danneggia anche i colossi internazionali abituati a operare lì, come Merrill Lynch, Deutsche Bank e Credit Suisse, perché l’accesso al listino continentale, ovvero i “titoli A” quotati a Shanghai in yuan, è garantito solo ai partner di joint con nomi cinesi, tra cui Goldman Sachs, Ubs e Morgan Stanley. Come contromossa, Hong Kong tenta di convincere a una doppia quotazione le aziende primariamente quotate a Shanghai.
Per un decennio i collocamenti dei migliori gruppi pubblici cinesi vanno a Hong Kong e questo rende impossibile agli investitori locali di beneficiare dei loro successi. Più o meno da inizio anno, dicono i banchieri, la Csrc, che ne ha l’autorità, inizia di fatto a stoppare le richieste di quotazione sull’isola soprattutto nel caso delle midcap. Chi aspira alla trafila di autorizzazioni necessaria per fare un’offerta su Hong Kong, rivela un investment banker, “viene amichevolmente consigliato (da Csrc) a considerare un listing domestico” oppure è costretto a tempi di attesa imprevedibili. Le mosse del Governo sono motivate dalle cifre: la capitalizzazione delle Borse continentali cinesi vale oggi il 46 per cento del Pil 2006, un rapporto assolutamente inadeguato se si pensa al rapporto attorno a uno a uno di alcuni Paesi europei o al 146 per cento degli Stati Uniti.
Gli investmenti delle famiglie sono ugualmente “arretrati”, con l’80 per cento del totale ancora depositati a bassissimi interessi o addirittura mantenuti liquidi. Nonostante lo scontento per le limitazioni, infine, secondo Raymond So, rettore associato dell’Università cinese di Hong Kong, esse “avranno un impatto solo a breve; a lungo, quando i mercati diventeranno più aperti, saranno le aziende a decidere dove quotarsi”.
Come conseguenza, la Borsa cinese tocca ieri il nuovo massimo di sempre, con un progresso del 10,7 per cento da inizio settimana. L’indice Shenzhen 300 infatti sale del 3,1 per cento a 2.668,83 punti, sostenuto in particolare dalla buona performance dei titoli finanziari. China Everbright Bank, l’ultimo istituto a ricevere un sostegno da parte del Governo, registra infatti una crescita dei profitti pari al 22 per cento a 352,4 miliardi di yuan. Peraltro, la banca controllata dallo Stato non è quotata sul mercato azionario, ma i suoi risultati contribuiscono a far scattare gli acquisti sui titoli del comparto.
Intanto il Governo di Singapore annuncia un taglio di due punti all’imposta sui redditi delle società dal 20 al 18 per cento, per accrescere la propria competitività fiscale. Lo rivela il ministro delle Finanze dell’isola-Stato, Tharman Shanmugartnam, spiegando che la misura avrà un costo di 523 milioni di dollari e avrà effetto dall’anno d’imposta 2008. Con la riduzione annunciata, Singapore sarà più appetibile sotto il profilo fiscale, cercando di competere con il principale rivale rappresentato da Hong Kong, la regione a statuto speciale della Cina dove l’aliquota d’imposta sulle società è del 17,5 per cento.