Società

CHI HA FATTO A PEZZI LA CATTEDRALE
DI CUCCIA

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(WSI) – Ora che sono entrati anche gli immobiliaristi, il salotto buono è diventato una specie di salone da ballo pieno di specchi, dove ognuno rimira le immagini di se stesso e si culla nell’illusione di potersi riprodurre tale e quale, un po’ Narciso un po’ H.G. Wells. Il milanese Franco Zunino e il campano Danilo Coppola hanno acquistato il 2% della banca d’affari. Stefano Ricucci ha venduto (non a Zunino il quale ha detto di aver acquistato direttamente sul mercato con mezzi propri) per concentrarsi su Rcs della quale Mediobanca è il secondo azionista (dopo Ricucci stesso).

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Sergio Siglienti, uno dei banchieri più colti, intelligenti e perbene, che ha salito tutte le scale della Comit da quando c’era Raffaele Mattioli a quando Romano Prodi la privatizzò, sostiene che a Enrico Cuccia gli immobiliaristi non sarebbero piaciuti. Anche se il Lord protettore del capitalismo italiano di nouveaux riches ne ha conosciuti, talvolta li ha aiutati (è successo con Raul Gardini) talaltra li ha subiti (come quando fece entrare Salvatore Ligresti in Mediobanca su pressione di Bettino Craxi per poi apprezzare le qualità dell’immobiliarista siciliano). Ma i fili erano sempre nelle sue mani.

Che cosa non avrebbe amato, allora, Cuccia? L’origine delle loro ricchezze? Forse, perché (al netto di deviazioni criminose che non risultano) provengono dalla pura rendita e sono stati accumulati troppo in fretta. Ma soprattutto non avrebbe amato l’uso dei loro patrimoni e dei quattrini (loro o delle banche che li prestano): sostanzialmente come raider. Una categoria che Cuccia detestava. Per lui non era un peccato scalare una società. Era un peccato mortale farlo per distruggere un vecchio equilibrio senza averne in testa uno nuovo. Cuccia non fu solo un guardiano degli assetti consolidati (i soliti noti, il vecchio club del capitalismo, gli Agnelli e i loro amici).

Fu soprattutto un architetto: distruggeva gli edifici finanziari che non stavano più in piedi e ne costruiva di nuovi. Ha non solo salvato e consolidato, ma ristrutturato la Pirelli di Leopoldo, l’Olivetti (alla quale trovò anche un nuovo capo e azionista di riferimento, Carlo De Benedetti), la Fiat dopo la morte di Vittorio Valletta e la transizione a Gianni Agnelli, la Montecatini fusa con la Edison. Molto spesso ha scelto i manager e i patron. Un centauro con il corpo pubblico (le tre banche azioniste, Comit, Credit, Banco di Roma, che facevano capo all’Iri) e la testa privata, come disse nel 1977 in Parlamento, in una delle sue rare apparizioni, chiamato da Napoleone Colajanni uno dei pochi a capire davvero il ruolo di Cuccia e della sua creatura, Mediobanca. Grandezza e limiti.

Colajanni è morto da qualche settimana. A quasi cinque anni dalla scomparsa di Cuccia (si spense il 28 giugno 2000). Di quella cattedrale gotica che il finanziere di origine siciliana aveva costruito, rimangono ancora due pinnacoli: il più alto è Generali, l’altro, pericolante, ma ancora in piedi, si chiama Fiat. Sono scomparse quasi tutte le grandi imprese familiari, che Cuccia aveva sostenuto da quando la crisi degli anni ’70 aveva messo in ginocchio il capitalismo privato italiano e innescato la corsa all’assistenzialismo pubblico che ora tutti noi stiamo pagando. Vent’anni fa, aveva fatto entrare i superstiti della grande industria familiare, nell’azionariato di Mediobanca. Ora, Lucchini ha venduto ai russi, Orlando ai tedeschi, Pirelli ha cambiato pelle, Olivetti non esiste più, Falck nemmeno. Delle tre grandi componenti dell’economia italiana dal dopoguerra a oggi, grandi gruppi industriali, imprese pubbliche e piccole aziende, restano solo queste ultime.

L’obiettivo di Cuccia, consolidare il capitalismo, basandosi sulla sua intelligenza (grandissima) e sulle sue sole forze (scarse perché in fondo Mediobanca era solo una banca d’affari di medie dimensioni), non è riuscito. Era troppo ambizioso, anche perché aveva contro potentissimi avversari. Quando si scrive dell’onnipotenza di Mediobanca, si dimentica (ad arte o per ignoranza) che le grandi potenze pubbliche, a cominciare dall’Eni, gli erano contro. Cuccia aveva come avversari i capi della Dc, da Fanfani a Moro a de Mita. Non lo amavano certo i postfascisti (lui che aveva fatto in gran segreto la staffetta con gli alleati), né i socialisti (era vicino agli azionisti moderati, e al club della Comit, da Malagodi a La Malfa). I comunisti lo rispettavano, ma era pur sempre il più importante «funzionario del capitale». E negli anni ’90 i governi dell’Ulivo diedero le spallate decisive al sistema Mediobanca, a cominciare da Prodi con la privatizzazione delle banche di riferimento per l’istituto di via Filodrammatici.

L’eclisse di Mediobanca come deus ex machina, che la morte di Cuccia ha accelerato e la defenestrazione di Vincenzo Maranghi ha sancito in modo definitivo, comincia in realtà nei primi anni ’90 e coincide con la crisi e il crollo della prima repubblica. Non è un caso. L’intero sistema Italia viene rimesso in discussione da due svolte storiche: in politica la caduta del muro di Berlino e in economia la liberalizzazione dei mercati. Il protezionismo della guerra fredda che aveva tenuto insieme le istituzioni (comprese quelle finanziarie), fa cadere le sue vesti arabescate e il re resta nudo.

Mediobanca è ancora lì, anzi fa molti profitti come merchant bank e, come investment bank, continua a custodire i suoi pacchetti “sensibili” e gli intrecci “strategici” (Generali, Fiat, Rcs, Telecom e Pirelli, Mediolanum, Fondiaria, Italmobiliare). Ma non è più in grado di costruire ingegnerie, tanto meno ardite. La guerra delle opa per Bnl e Antonveneta, e soprattutto la fusione Unicredit-Hypovereinsbank, indicano cosa ci aspetta. In piazzetta Cuccia, del resto, c’è oggi un forte nucleo straniero, a cominciare dagli amici di Vincent Bolloré e di Tarak ben Ammar. Alla presidenza del Leone di Trieste c’è Antoine Bernheim già figura di punta della finanza francese, uno dei personaggi più importanti di Lazard la banque d’affaires con la quale Cuccia aveva incrociato affari e destini. Il tricolore non trova vento per garrire, in una finanza sempre più internazionale. L’euro non c’entra, la svolta è cominciata dodici anni fa. La moneta unica è stata un passo avanti in un percorso senza ritorno verso la integrazione finanziaria e, quindi, la semplificazione valutaria.

Chi sostiene che Mediobanca sia un tappo che blocca l’evoluzione del capitalismo italiano verso un sistema di mercato aperto, può essere contento che l’impaccio venga progressivamente rimosso. Ma che cosa resta al suo posto? C’è un’idea sistemica in grado di sostituire quella caduta una dozzina d’anni fa? Sulla carta, poteva esserci nell’era delle privatizzazioni, ma la vendita dell’industria di stato non ha rafforzato né innovato il capitalismo italiano. Paradossalmente, l’hanno spinto verso più comodi rifugi (le concessioni pubbliche, i servizi semi-monopolisti). Le banche d’affari concorrenti, soprattutto quelle anglo-americane, hanno operato con una logica opposta a quella di Cuccia e i risultati non sono stati brillanti (tranne che per i loro bilanci). Adesso, chi vuole impadronirsi di Mediobanca lo fa per mettere mano agli asset strategici, cominciando da Generali.

Non sarà una operazione facile. E soprattutto bisognerà capire che cosa hanno in testa gli azionisti forti, in particolare Capitalia e Unicredito che defenestrarono Maranghi due anni fa, perché Fiat dovrà pensare a salvare se stessa e i suoi destini si incrociano con quelli delle banche che a settembre ne diventeranno azioniste. A quel punto, dell’opera di Cuccia resterà davvero ben poco.