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“Che dio ce la mandi buona”, poi l’urlo liberatorio: “Tutti in ferie”

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Roma – L’ utilità della giornata che in apertura e in conclusione il presidente Gianfranco Fini ha definito «straordinaria» con pompa nient’altro che istituzionale – è stata perfettamente colta da Mario Pepe, deputato del Pd iscritto per ultimo a parlare. A quel punto l’aula era spopolata e in disarmo e chi s’attardava aveva l’aria dello scolaro che si incaponisce ancora un po’, per meglio gustare la prossima libertà: da oggi il Parlamento è in ferie.

Ebbene, aveva parlato il premier Silvio Berlusconi, aveva messo briscola il segretario del partito Angelino Alfano e aveva replicato il segretario democratico Pierluigi Bersani (non uno dei tre era sfuggito al fiacco torpore di pre-villeggiatura). Poi, una volta passata la palla al capogruppo della Lega, Marco Reguzzoni, la vacanze erano ufficialmente cominciate.

Il popolo del trolley – questo splendido animale da palazzo che sgombra a metà settimana trascinandosi minuscole valigie dimensionate alla durata della trasferta – si era messo in moto. A ogni successivo intervento, c’era una quota di onorevoli richiamata alle dure responsabilità della partenza: eurostar, frecce rosse e voli di linea chiamavano senza requie.

E così, per arrivare al punto, al nodo della giornata, al cruciale sbocco, quando è stato il momento di Mario Pepe non era rimasta di sentinella che qualche decina di colleghi, tutti in drappello, tutti disinteressati e così è loro purtroppo sfuggita la sentenza dell’on. Pepe, scolpita nel marmo a caratteri d’oro: «Che Dio ce la mandi buona».

Sono state le ultime e chirurgiche parole echeggiate nell’emiciclo in cui ne erano echeggiate, nel pomeriggio, di molte e di altisonanti e provenienti da autorevolissime bocche. Lo scopo era di illustrare il punto di vista del governo davanti al disastro borsistico e a quello dei titoli di Stato.

L’esecutivo, dunque, che intende fare? Il presidente del Consiglio, in una prestazione eccitante come quella di un notaio svizzero, ha detto quello che dice da inizio legislatura, se non da inizio vita: va tutto bene, l’Italia è solida, le pensioni vanno che paiono un espresso, le banche sono fortezze Bastiani, se c’è qualche guaio dipende dal fatto che i mercati non ci capiscono un’acca eccetera.

Ecco. In una quarantina di minuti di discorso, si saranno contati sette o otto applausi, compreso quello finale dal sapore più liberatorio che giubilante. Subito dopo era stato il turno di Angelino Alfano, pressoché all’esordio al posto di Fabrizio Cicchitto. L’intera filosofia politica ed esistenziale di Alfano era riassumibile in una delle frasi d’attacco: «Se si litiga meno, si fa il bene del Paese». Poi, naturalmente, Alfano ha giocato un po’ all’oratore, ma quando Pierluigi Bersani con voce grave ha annunciato che l’intervento di Alfano lo aveva «impaurito», ci si è detti che era la prima volta che Alfano impauriva qualcuno. La ciccia non è facile da tirare fuori.

Bersani è stato piuttosto dispersivo: «Presidente… eh… mica siamo qui… eh… a dirci questo e quello… no?… presidente!… eh?… vogliamo prenderci in giro?». Insomma, pretendeva che il premier si dimettesse così come Pierferdinando Casini (il quale coglie oggi un clima non dissimile da quello del 1992), per la trentanovesima volta dall’inizio dell’anno, ha proposto un governo tecnico.

Ecco, se lo scopo della giornata era di ascoltare Berlusconi dire che il vento è in poppa, di ascoltare Bersani dire che serve un passo indietro e di ascoltare Casini dire che la coesione nazionale è l’unica uscita, bene, sarebbe bastato Google.

E dunque ci si è accontentati di un Di Pietro in forma smagliante, autore di una superba prova di oratoria casereccia: «Se non fossi in Parlamento direi: caro Silvio! Lei ci è o ci fa? Mi viene da ridere per non piangere. Ma lei è il nuovo Alicio nel paese nelle Meraviglie? Oh! Silvio! Aho!». E ancora: «In Italia c’è una crisi nella crisi che si chiama Berlusconi Silvio, nato a non mi ricordo più dove».

Fino all’apprezzata deriva psichedelica: «Berlusconi, lei sta facendo morire di fame milioni di persone». Rideva Tonino, rideva Silvio, ridevano tutti. Perché tanto Dio, a noi, ce la manda sempre buona. Forse.

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