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Casta, pensioni indegne e privilegi: ecco tutti i nomi

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Giovanotti con un grande avvenire dietro le spalle che si godono la vita dopo gli anni di militanza parlamentare. Come Alfonso Pecoraro Scanio, ex leader dei Verdi ed ex ministro dell’Agricoltura e dell’Ambiente. Presente alla Camera dal 1992, nel 2008 non è riuscito a farsi rieleggere e con cinque legislature nel carniere è stato costretto alla pensione anticipata. Ma nessun rimpianto. Da allora, cioè da quando aveva appena 49 anni, Pecoraro Scanio riscuote il vitalizio assicuratogli dalla Camera: ben 5.802 euro netti al mese che gli consentono di girare il mondo in attesa dell’occasione giusta per tornare a fare politica.

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Oliviero Diliberto è un altro grande ex uscito di scena nel 2008 causa tonfo elettorale della sinistra. Segretario dei Comunisti italiani ed ex ministro della Giustizia, con quattro legislature alle spalle e ad appena 55 anni, anche lui si consola riscuotendo una ricca pensione di 5.305 euro netti. Euro in più, euro in meno, la stessa cifra che spetta a un altro pensionato-baby della sinistra, addirittura più giovane di Diliberto: Pietro Folena, ex enfant prodige del Pci-Pds, passato a Rifondazione e trombato nel 2008 quando, con le cinque legislature collezionate, a soli 51 anni ha cominciato a riscuotere 5.527 euro netti al mese.

Davvero niente male, considerando le norme restrittive che le varie riforme pensionistiche dal 1992 hanno cominciato ad introdurre per i comuni cittadini. Norme ferree per tutti, naturalmente, ma non per deputati e senatori che, quando si è trattato di ridimensionare le proprie pensioni, si sono ben guardati dal farlo. Certo, hanno accettato di decurtarsi il vitalizio con il contributo di solidarietà voluto da Tremonti per le “pensioni d’oro” e pari al 5 per cento per i trattamenti compresi fra i 90 e i 150 mila euro (una penalizzazione che tocca solo i parlamentari con oltre i 15 anni di mandato), ma per il resto hanno evitato i sacrifici imposti agli altri italiani. Tutto rinviato alla prossima legislatura quando, almeno stando all’annuncio del questore della Camera Francesco Colucci, e a una proposta del Pd, potrebbe entrare in vigore un nuovo modello pensionistico contributivo. A Montecitorio, però, il clima è rovente. Pochi giorni fa il presidente Gianfranco Fini non ha ammesso un ordine del giorno dell’Idv, che chiedeva l’abolizione dei vitalizi (“Un furto della casta”, secondo il dipietrista Massimo Donadi). Secondo Fini, i diritti acquisiti non si toccano, al massimo si potrà discutere della riforma.

IL CLUB DEI CINQUE
Nel frattempo, l’andazzo continua, con l’esercito dei parlamentari pensionati che si ingrossa sempre più, fino a toccare il record dei 3.356 vitalizi erogati fra le 2.308 pensioni dirette e le reversibilità, divise tra le 625 alla Camera e 423 al Senato. Un fardello che si traduce ogni anno in una spesa di 200 milioni di euro, oltre 61 dei quali pagati da palazzo Madama e i restanti 138 da Montecitorio. In questo pozzo senza fondo del privilegio ci sono anzitutto i superfortunati che con una sola legislatura, cioè appena cinque anni di contribuzione, portano a casa il loro bravo vitalizio. Personaggi anche molto noti e quasi sempre ancora nel pieno dell’attività professionale. Nell’elenco compare Toni Negri, ex leader di Potere operaio, docente universitario e scrittore. Venne fatto eleggere mentre era in carcere per terrorismo nel 1983 dai radicali di Marco Pannella. Approdato a Montecitorio, Negri ci restò il tempo necessario per preparare la fuga e rifugiarsi in Francia. Ciononostante, oggi percepisce una pensione di 2.199 euro netti. Stesso importo all’incirca riscosso da un capitano d’industria come Luciano Benetton (al Senato nel 1992, restò in carica solo due anni per lo scioglimento anticipato della legislatura) e da un avvocato di grido come Carlo Taormina. E sono solo due casi tra i tanti. Nel “club dei cinque” sono presenti quasi tutte le categorie lavorative, con nomi spesso altisonanti. Compaiono intellettuali come Alberto Arbasino, Alberto Asor Rosa e Mario Tronti. Giornalisti di razza come Enzo Bettiza, Eugenio Scalfari, Alberto La Volpe, Federico Orlando; altri avvocati di grido come Raffaele Della Valle, Alfredo Galasso e Giuseppe Guarino; star dello spettacolo come Gino Paoli, Carla Gravina e Pasquale Squitieri. Tutti incassano l’assegno calcolato con criteri tanto generosi quanto lontani da quelli in vigore per i comuni lavoratori.

GIOCHI DI PRESTIGIO
Per i deputati eletti prima del 2008 (per quelli nominati dopo è stata introdotta una modesta riforma di cui solo tra qualche anno vedremo gli effetti) vale il vecchio regolamento varato dall’Ufficio di presidenza di Montecitorio nel 1997. Dice che i deputati il cui incarico sia cominciato dopo il ’96 maturano il diritto al vitalizio a 65 anni, basta aver versato contributi per cinque. Fin qui, nulla da dire: il requisito dei 65 pone i deputati sulla stessa linea stabilita per la pensione di vecchiaia dei comuni cittadini. Ma basta scorrere il regolamento per scoprire le prime sorprese. L’età minima dei 65 anni si abbassa di una annualità per ogni anno di mandato oltre i cinque prima indicati, sino a toccare la soglia dei 60. E non è finita. Alla Camera ci sono ancora un gran numero di eletti prima del ’96 e per questi valgono le norme precedenti. Secondo queste norme il diritto alla pensione si matura sempre a 65 anni, ma il limite è riducibile a 50 anni e ancor meno (come nel caso di Pecoraro Scanio), facendo cioè valere le altre annualità di permanenza in Parlamento oltre ai cinque anni del minimo richiesto. Questo accade nell’Eldorado di Montecitorio.

A palazzo Madama gli eletti si trattano altrettanto bene. Un regolamento del 1997 stabilisce che i senatori in carica dal 2001 possono, come alla Camera, andare in pensione al compimento del sessantacinquesimo anno con cinque anni di contributi versati. Ma attenzione, anche qui dal tetto dei 65 si può scendere eccome. Possono farlo tutti i parlamentari eletti prima del 2001. Per costoro, il diritto alla pensione scatta a 60 anni se si vanta una sola legislatura, ma scende a 55 con due mandati e a 50 con tre o più legislature alle spalle.

IL BABY ONOREVOLE
Dall’età pensionabile alla contribuzione necessaria per la pensione, ecco un altro capitolo che riporta agli anni bui delle pensioni baby. Si tratta delle pensioni che consentivano alle impiegate pubbliche con figli di smettere di lavorare dopo 14 anni, sei mesi e un giorno (i loro colleghi potevano invece farlo dopo 19 anni e sei mesi). Ci volle la riforma Amato del ’92 per cancellare lo sfacciato privilegio. Ma cassate per gli statali, le pensioni baby proliferano tra i parlamentari. Secondo il trattamento Inps in vigore per tutti i lavoratori, ci vogliono almeno 35 anni di contributi per acquisire il diritto alla pensione. I parlamentari invece acquisiscono il diritto appena dopo cinque anni e il pagamento di una quota mensile dell’8,6 per cento dell’indennità lorda (1.006 euro). Fino alla scorsa legislatura le cose andavano addirittura meglio per la casta. Bastava durare in carica due anni e mezzo per assicurarsi il vitalizio (è il caso di Benetton). Il restante delle annualità mancanti per arrivare a cinque potevano essere riscattate in comode rate. Nel 2007 è arrivato un colpo basso: i cinque anni dovranno essere effettivi. Una mazzata per Lorsignori, che si rifanno con la manica larga con la quale si calcola il vitalizio.

RIVALUTAZIONE D’ORO
Sino agli anni Novanta, tutti i lavoratori avevano diritto a calcolare la pensione sui migliori livelli retributivi, cioè quelli degli ultimi anni (sistema retributivo). Successivamente, si è passati al sistema contributivo per cui la pensione è legata invece all’importo dei contributi effettivamente versati. Il salasso è stato pesante. Per tutti, ma non per i parlamentari. Che sono rimasti ancorati a un vantaggiosissimo marchingegno. Invece che sulla base dei contributi versati, deputati e senatori calcolano il vitalizio sulla scorta dell’indennità lorda (11 mila 703 euro alla Camera) e della percentuale legata agli anni di presenza in Parlamento.

Con 5 anni di mandato si riscuote così una pensione pari al 25 per cento dell’indennità, cioè 2 mila 926 euro lordi. Raggiungendo invece i 30 anni di presenza si tocca il massimo, l’80 per cento dell’indennità che in soldoni vuol dire 9 mila 362 euro lordi. Vero che con una riforma del 2007 Camera e Senato hanno ridimensionato i criteri di calcolo dei vitalizi riducendo le percentuali: si va da un minimo del 20 dopo cinque anni al 60 per 15 anni e oltre di presenza in Parlamento. Ma a parte questa riduzione, gli altri privilegi restano intatti. Con una ulteriore blindatura, che mette al sicuro dall’inflazione e dalle altre forme di svalutazione: la cosiddetta “clausola d’oro”, per cui i vitalizi si rivalutano automaticamente grazie all’ancoraggio al valore dell’indennità lorda del parlamentare ancora in servizio.

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