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CASO FIDEURAM: SCUDI FISCALI
PRO-RICICLAGGIO?

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L’indagine della guardia di finanza e della procura di Firenze su 106 promotori finanziari della banca Fideuram per abusivismo finanziario e riciclaggio (in alcuni casi anche usura), si è arricchita di un elemento di colore, tra gli indagati c’è una bandiera storica del Milan come Franco Baresi e la di lui consorte. L’indagine pesa sulla quotazione del titolo, anche se né la banca né la controllante SanPaolo c’entrano nulla, le ipotesi indagate risultano commesse all’insaputa degli istituti sia pur avvalendosi dei loro canali operativi in Italia e Svizzera.

Si è poi immediatamente aperto un problema politico. Poiché si tratta di centinaia di milioni di euro frutto di evasione fiscale e altre attività illecite, illegalmente esportati all’estero e rientrati in Italia “ripuliti” grazie ai due scudi fiscali adottati dal governo nel 2002 e 2003, si può sostenere che siano stati proprio i condoni, a far venire la tentazione ai disinvolti promotori?

L’economista Marco Vitale propende per il sì, “lo sciagurato scudo fiscale ha qualche colpa”, e concorda col parere del procuratore aggiunto di Torino Bruno Tinti, che aveva definito lo scudo fiscale “una legge sul riciclaggio di Stato”.

Il Foglio esaminò questa ipotesi nell’autunno 2001, quando Giulio Tremonti proponeva la prima versione dello scudo. Ospitammo un aspro parere critico di Paolo Cirino Pomicino, secondo il quale “grazie alla legge mille prestanome potranno riciclare mille miliardi di lire”. E il 27 novembre 2001 raccogliemmo una puntuale replica, da parte di quei tecnici che – allora in stretta collaborazione tra Economia e Banca d’Italia – avevano redatto le norme.

Con lo scudo, gli intermediari finanziari presso i quali avvenivano le dichiarazioni riservate di reimpatrio dei capitali vennero sollevati dall’obbligo di segnalarle nominativamente all’anagrafe tributaria, in maniera da escludere l’eventuale accertamento automatico. Ciò era però limitato al solo illecito di infedele dichiarazione dei redditi nel periodo precedente al reimpatrio e reati tributari annessi, esattamente come nel caso del “ravvedimento operoso” e del “concordato per adesione” firmati dall’ex ministro Visco.

Ma le banche, le società di intermediazione mobiliare e gestione del risparmio presso le quali sono avvenute le operazioni hanno dovuto ottemperare a tutti gli altri criteri del decalogo prudenziale di Bankitalia per la trasparenza delle operazioni. Restando vincolate a fornire i dati delle dichiarazioni riservate se richiesti nel corso di procedimenti penali, o per accertamenti antiriciclaggio. A garanzia che lo scudo non potesse coprire attività delittuose.

Tanto è vero, si osserva al ministero dell’Economia, che le indagini sulla rete Fideuram risultano avviate su segnalazioni all’autorità giudiziaria da parte della Consob, e da paralleli e distinti accertamenti avviati dalla guardia di finanza. Perché è vero che gli scudi sono stati un successo, con quasi 80 miliardi di euro rientrati sotto la sovranità fiscale della Repubblica, un impulso energico all’intero settore del private banking italiano rispetto alla tradizionale concorrenza svizzera, con grandi gruppi come Intesa e Unicredit che hanno creato divisioni ad hoc, e diversi paesi europei e anche gli Usa che ne hanno copiato il modello.

Ma al ministero si sapeva che molte attività illecite i cui proventi erano denominati in lire e che non sarebbero stati convertiti in euro agli sportelli bancari, avrebbero dunque “tentato” il lavacro attraverso gli scudi; e anche che la pratica del riciclaggio estero di fondi illeciti non era destinata a interrompersi. Le prove? Stanno in atti ufficiali.

La relazione al Parlamento sugli illeciti valutari nel 2002, consegnata da Tremonti nel maggio del 2003, segnalava i salti mortali con cui la guardia di finanza era riuscita a intercettare alla frontiera capitali illeciti per oltre 18 miliardi di euro di cui 4 di residenti in Italia, con annessa valutazione che dunque la somma che era riuscita a eludere i controlli doveva essere molto più consistente. E quanto poi a quanti di questi illeciti siano posti in essere da infedeli operatori bancari, anche su questo al ministero fanno notare che non si dorme.

Due mesi fa, in risposta a un’interrogazione parlamentare sulla lotta all’evasione fiscale, senza che i media se ne accorgessero il sottosegretario all’Economia Daniele Molgora ha riferito di un’indagine i cui fascicoli sono stati aperti contestualmente all’attuazione del primo scudo fiscale. Attività investigative svolte a Milano, Roma, Udine e Trieste, ancora coperte dal segreto istruttorio, relative a operazione poste in essere da funzionari di gruppi come Abn Amro, Goldman Sachs e altri, dai cui dati ufficiali risultavano prodotti nel 2002 redditi per quasi 100 milioni di euro in Italia che però non risultavano al fisco italiano. Il caso Fideuram è solo il primo che scoppierà. Grazie ai controlli attivati al reingresso dei capitali, non perché lo scudo fosse Cosa nostra.

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