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CASA ROSADA SI’, MA DI VERGOGNA

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(WSI) – Il giudizio più gentile è che è «un colossale imbroglio». Quello più duro, che è «un volgare ricatto». Continuano tutti a chiamarli «tango-bond», con un termine intrinsecamente gentile. Ma la loro musica assomiglia sempre di più a quella suonata ai risparmiatori dai (per ora presunti) responsabili del crac Parmalat. Il problema è che a Parma il buco è stato di 19 miliardi di euro. Mentre Buenos Aires è esposta con il mondo per 102,6 miliardi di dollari di titoli di Stato, tra capitale e interessi mai pagati.

La storia dei tango-bond resterà fissa come un chiodo nella mente dei risparmiatori di mezzo mondo. Era la notte del Natale 2001 quando il governo del presidente argentino Adolfo Rodríguez Saa, appena insediato e subito alle prese con una crisi finanziaria senza precedenti, che provocava sommosse di piazza e morti, sospese il pagamento dei bond. Rendevano bene, fino al 9%. Erano garantiti da uno Stato sovrano. Le banche italiane ne avevano piazzati per circa 14 miliardi di euro a 450 mila risparmiatori: dopo l’Argentina, nel globo, era il nostro Paese quello con la quota principale, un sesto del totale.

Ora il nuovo governo argentino di Néstor Kirchner, in sella dal maggio 2003, propone al mondo di scambiare i 102,6 miliardi di quei maledetti tango-bond con nuove obbligazioni fino a un massimo di 41,8 miliardi. Il taglio in media è del 60%. «Prendere o lasciare» chiosa elegantemente il suo ministro dell’Economia, Roberto Lavagna. Le nuove emissioni avranno scadenza fino al 2045, nessuno, neanche la Casa Rosada (che pure ha il colore dell’ottimismo), ne garantisce bontà e vendibilità. Non è una provocazione. È quello che c’è scritto, nero su bianco, nelle 300 pagine del prospetto, approvato dalla Consob (leggere, per credere, l’articolo su Economy a pag. 30).

Certo, viene da domandarsi perché mai il Fondo monetario internazionale, che a Kirchner ha promesso un prestito da 13,5 miliardi di dollari e ne ha già versato una prima tranche da 3,5, non abbia cercato di ottenere in cambio almeno un po’ di correttezza nei confronti di una clamorosa massa di risparmiatori e di istituzioni finanziarie volgarmente gabbate.

Anche perché, nei tre anni trascorsi da quella fatidica notte di Natale, l’Argentina è molto cambiata. Pochi dati: allora l’inflazione era al 41%, oggi è bloccata al 5,2. Nel 2001 il Pil era arretrato del 5,5%, nel 2004 è cresciuto dell’8% e passa.

E la bilancia dei pagamenti era in rosso di quasi 4 miliardi di dollari, mentre nel solo primo semestre del 2004 ha sfiorato un attivo di 3,5. Era davvero impossibile fare meglio di quel misero 30-40% di rimborsi? Sarà. Nelle 20 ristrutturazioni di un debito statale andate in porto dal 1990, non era mai accaduto che gli obbligazionisti internazionali ci rimettessero più del 36 per cento.

Ora, comunque, anche in Italia qualcuno deve fare qualcosa contro l’imbroglio argentino e a favore degli obbligazionisti: si muova il governo italiano, l’opposizione in Parlamento non si tiri indietro.

Perché l’alternativa è un nuovo, infinito contenzioso tra risparmiatori e banche. E questo Paese non può cavarsela sempre con un giro di valzer. O di tango.

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