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Capitalismo finanziario indecente. Rischio nuova crisi

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Roma – Claudia Lopedote, vice Segretario Generale del Consiglio italiano per le Scienze Sociali, ha intervistato Luciano Gallino, sociologo e autore di diversi testi per capire come muta la società L’ultimo è “Finanzcapitalismo”.

DOMANDA – La crisi mondiale sembra avere (già) lasciato alle proprie spalle quei pochi elementi di critica ed analisi delle concause, senza peraltro mai mettere in discussione il paradigma neoliberista nel quale la finanza assurge a strumento di governo della civiltà-mondo contemporanea, che fa della crisi condizione fisiologica permanente della modernità. Allo sguardo atrofico sul capitalismo si contrappone la logorrea sull’etica della finanza e sulla necessità di affiancare ai meccanismi attuali elementi di solidarietà, equità, democrazia, sostenibilità. Affidati per lo più a soggetti ed istituzioni volenterose ma marginali, spesso propaggini delle élites finanziarie di buone letture. Un innesto senza alcun ripensamento delle relazioni sociali, di produzione e riproduzione non soltanto economica, e di quel che resta del welfare. La critica che lei fa in tal senso in Finanzcapitalismo (2011) e Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (2007) è irriducibile.

GALLINO – La responsabilità sociale è del tutto insufficiente anche solo per ridurre la probabilità che una nuova crisi si verifichi nell’arco di qualche anno. La crisi del 2007 è stata resa possibile da una miriade di modifiche legislative che si sono articolate nell’arco di parecchi anni, in particolare tra il 1990 e i primi anni del 2000. Per porre rimedio ai difetti strutturali del sistema finanziario sono indispensabili delle leggi che contrastino, in parte eliminino e in parte modifichino, questo stato delle cose. È quindi indispensabile introdurre nuovi dispositivi per rendere il sistema finanziario più maneggevole, più comprensibile, e con un perimetro più ristretto.

Nessun esercizio di responsabilità sociale può fare qualche cosa del genere. Si tenga presente che ancora oggi, quando si parla di responsabilità sociale, si parla in fondo di un approccio volontaristico. E non è certo questo il campo in cui l’approccio volontaristico puo’ produrre dei risultati. Può anche darsi che sia tardi, ma occorrerebbe che la politica, non solo nel nostro Paese ma sul piano internazionale, si impegnasse per cercare di riportare la finanza nei suoi ambiti.

Qualcosa negli Stati Uniti hanno fatto con la riforma del 2010, la cosiddetta Wall Street Reform. Ma si tratta di una riforma dall’impatto molto macchinoso, e assai limitato rispetto alle dimensioni del problema. Interviene troppo morbidamente o non interviene affatto in settori che sono stati determinanti per causare la crisi. Ad esempio, interviene in modo minimo per cercare di gettar luce sulla cosiddetta finanza ombra, un gigantesco sistema finanziario parallelo che andrebbe drasticamente ridotto con vari tipi di intervento. Di questo la riforma americana dice poco, e meno ancora l’Unione europea nelle riforme che la Commissione europea sta lentamente mettendo a fuoco.

Se ne parla ogni tanto nelle riunioni del G20. C’è stata una riunione a febbraio nella quale il Governatore Draghi diceva che bisogna fare qualcosa per imbrigliare la finanza ombra, ma sono dichiarazioni che restano sulla carta. Possiamo dire che il rischio di una nuova crisi nel giro di due, tre, cinque anni, continua ad essere molto forte.

LOPEDOTE In Italia Marchionne, ad della Fiat, dice che non è compito della Fiat innovare, perché l’innovazione si compra sul mercato. E intanto la politica dà dimostrazione di (non) governo delle aspettative invece che del Paese. Dove il problema e la soluzione sono sempre sul lato della domanda, dei consumi, del lavoro. Senza peraltro una corrispondente capacità di spesa pubblica come leva di politica economica. Quindi via libera a precariato, flessibilità, privatizzazioni, delegittimazione dei sindacati e negazione dei diritti dei lavoratori.

GALLINO – L’Italia, dal punto di vista strettamente finanziario, almeno fino ad oggi, se l’è cavata meglio perché le banche italiane sono state più prudenti nel concedere prestiti, hanno sviluppato un po’ meno la finanza ombra, anche se questa esiste pure in Italia, perché molti tipi di fondi, di veicoli speciali esistono anche da noi. Il costo secco della crisi finanziaria in Italia è stato assai minore.

Insieme a questo aspetto positivo, c’è anche un elemento negativo, cioè l’estrema fragilità del suo sistema economico, quella che ormai va definita come la sua arretratezza; mi riferisco in particolar modo alla struttura industriale del Paese, che è ormai una delle più arretrate dell’Occidente, perché i grandi campioni industriali che avevamo fino a qualche decennio fa sono quasi del tutto scomparsi. E rischia di scomparire anche il penultimo se non ultimo dei campioni industriali che è la Fiat, che rischia di diventare la succursale italiana della Chrysler.

Quindi, un Paese come la Germania ha dei grossi problemi sul piano finanziario – perché ci sono alcune delle sue maggiori banche che hanno avuto perdite considerevoli e il governo ha dovuto stanziare somme ingenti per salvare i diversi tipi di enti finanziari – ma ha un’ economia industrialmente strutturata che marcia molto bene, che fa profitti, paga salari pari al doppio dei nostri, ha una produttività ben più elevata, ha un insieme di caratteristiche positive che l’Italia non ha più o non ha mai avuto.

Tra le prime cinquecento imprese del mondo, i gruppi tedeschi sono almeno 22-25, mentre quelli italiani sono 2 o 3. Questo dà un’idea della distanza che ci separa dai grandi Paesi industriali. La Francia ne ha 15, la Svizzera 6-7 a fronte di una popolazione otto volte minore di quella italiana.

Ci vorrebbe che si formassero delle grandi industrie che si sviluppano, magari anche velocemente quando va bene, da imprese preesistenti. Ci vogliono parecchi anni se non lustri, ed un politica industriale che cerchi di partire da quei pochi punti di forza che abbiamo: l’Italia è un paese ancora importante nel campo delle macchine utensili, ci sono poi i distretti industriali che però sono fatti da tante piccole imprese che parlano poco e malvolentieri tra loro, mentre occorrerebbero integrazioni per fare sì che anche esse possano fare ricerca e sviluppo, formazione tutto ciò che una piccola impresa non potrebbe fare. Serve una robusta politica industriale di cui nel nostro Paese non si vede nemmeno l’ombra.

LOPEDOTE – Come si rappresenta il capitale nell’era della finanziarizzazione? C’è una ormai drammatica difficoltà di traduzione dei movimenti astratti del denaro in traiettorie e vicende dei soggetti storici che si contrappongono al potere del capitale. Dopo lo sgretolamento delle forme di organizzazione sociale ed istituzionali esistenti, quali sono le domande di senso e le categorie centrali del nuovo ordine globale necessarie a rinnovare la rappresentanza universale nell‘era dell‘immanenza del capitale e quali forze ed istituzioni possono farsene carico?

GALLINO – È un tema che è emerso in modo abbastanza laterale, non dico marginale, nella discussione sulla crisi e le sue cause, sui possibili sviluppi, e riguarda la necessità, la rilevanza di procedere su qualche forma di democrazia economica. Perché il predominio del capitalismo finanziario vuol dire uno svuotamento sostanziale della democrazia; si va a votare ma poi nei Parlamenti quello che avviene è che le leggi seguono, per varie ragioni, le indicazioni dei centri finanziari, delle fabbriche del pensiero neoliberista e così via. Anche su questo fronte non pare ci sia, almeno a breve periodo, da attendersi molto.

Attaccare i sindacati è un modo goffo e preistorico di scaricare le colpe su qualcuno. I sindacati hanno commesso degli errori, c’è il grosso problema della mancanza di unità, ma resta il fato che, nel nostro Paese come in altri, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, essi sono oggetti di un pesante attacco da almeno trent’anni; sono state introdotte leggi ad hoc, sono state spezzate le reni ai sindacati licenziando di colpo migliaia di controllori di volo negli Stati Uniti o di minatori in Gran Bretagna. Ci sono anche delle difficoltà strutturali che impediscono ai sindacati di fare il proprio mestiere.

Non esistono più le grandi fabbriche, per certi aspetti non esistono dove l’industria è tutto sommato ancora abbastanza prospera, perché attraverso i meccanismi di appalti e subappalti, esternalizzazione estesa a tutto il mondo, la produzione che si faceva prima si continua a fare, ma suddivisa tra 100-500 e più piccole e medie aziende.

Rappresentare l’interesse di masse di lavoratori che sono distribuite fra mille aziende è un problema di enorme difficoltà rispetto alla rappresentanza delle persone che hanno uno stesso contratto e stessi interessi. La globalizzazione della produzione che è consistita nella ricerca di distribuzione nel mondo del minimo costo nel senso più ampio del termine ha prodotto una frammentazione della produzione, quindi la frammentazione dei lavoratori di ogni genere, di ogni tipo. E ha reso molto difficile per i sindacati rappresentarne gli interessi in modo unitario. Anche solo in un Paese come l’Italia, i lavoratori che nell’insieme fabbricano elettrodomestici o automobili hanno decine di contratti di lavoro diversi. Non è un caso, non è un incidente, è stato voluto, ma poi bisogna almeno avere la decenza di evitare di dire che la colpa è dei sindacati.

Le riforme del mercato del lavoro anche in Germania sono andate nella stessa direzione, tuttavia in Germania ci sono leggi importanti, come la legge che impone la rappresentanza dei sindacati nelle grandi imprese, ne fa i componenti dei consigli di sorveglianza, uno dei due organi direttivi nelle imprese al di sotto dei duemila dipendenti, dove la metà sono rappresentanti sindacali. Questo fa una grande differenza. Non è l’ultima ragione per cui la Fiat produce in Italia meno di seicentomila auto, e la Volkswagen ne ha prodotte l‘anno scorso in Germania quasi cinque milioni.

LOPEDOTE – Ad un’analisi che spazza via anche le premesse del funzionamento del sistema capitalistico attuale, lei fa seguire proposte di riforma piuttosto moderate rispetto agli assetti esistenti. Altri indicano nell’accelerazione della crisi e quindi nella sua deflagrazione sociale la via di uscita dalla barbarie tecno-economica, considerando le riforme un modo per lasciare le cose come stanno, seppure allo stato latente.

Ci andrei piano a parlare di deflagrazione della crisi, perché questo vorrebbe dire, ad esempio, molte centinaia di migliaia di disoccupati in più, rispetto agli oltre duecentomila che già esistono nel mondo, più molte altre conseguenze assai sgradite.

Quello che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto era prendere l’occasione offerta dalla crisi nell’autunno 2008 per introdurre delle riforme serie del mercato finanziario, perché in quel momento i banchieri stessi avevano paura, i politici erano molto preoccupati, sia in America sia in Europa, e forse qualche riforma importante si sarebbe potuta fare.

Adesso l’occasione è perduta e il sistema finanziario è tornato a fare profitti colossali, creando denaro dal nulla. Se uno guarda a quello che sta succedendo, non c’è da essere molto sereni, perché tra i due contro-movimenti che Karl Polanyi anticipava già molti anni fa nel suo grande libro di metà Novecento (La grande trasformazione, 1944), quello che maggiormente prende piede è sicuramente il contro-movimento autoritario, movimento populista, xenofobo, come prova il successo delle formazioni di destra in almeno una decina dei Paesi europei, per non parlare del successo dei repubblicani negli Stati Uniti e della loro fazione più ottusamente a destra che è il cd.

Tea Party che spara a zero, ad esempio, sulla modesta riforma dell’assicurazione sanitaria che il Presidente Obama è riuscito a condurre in porto, e altre cose del genere. Quindi non ci sono particolari ragioni di essere ottimisti, anche se è vero che è osservabile anche il contro-movimento alternativo, ragionando sempre nei termini di Polanyi, cioè il movimento che guarda alla socialdemocrazia, che guarda a forme progressiste di innovazione sociale e finanziaria, che guarda all’importanza di difendere il modello sociale europeo. Mentre l’altro contro-movimento pensa soprattutto ad abbatterlo. Per il momento, i due contro-movimenti più o meno si equivalgono, e sviluppi sostanziali io stento a vederli.

LOPEDOTE – Joseph Stiglitz, riferendosi alla finanza rapace che insegue la massimizzazione e privatizzazione dei profitti con parallela esternalizzazione dei rischi e delle perdite, e crescente, insostenibile insicurezza sociale trasferita ai lavoratori, agli individui, alle famiglie, ha di recente parlato di Sindrome Fukushima a Wall Street.

GALLINO – Sì, questo è stato fatto egregiamente dal sistema finanziario internazionale che, sostenuto dalla politica, ha incassato trilioni di dollari e di euro. E, con l’aiuto della politica, e dei governi americano ed europei, ha provveduto a socializzare le perdite. Quando si parla di tagli delle pensioni, della sanità, della scuola, e persino dei sussidi ai disabili, è un modo concreto di socializzare le perdite. Per fare pagare le perdite ai perdenti.

Pensiamo al fatto che i Millennium Goals ONU potrebbero essere conseguiti con un esborso di circa 250 miliardi di dollari l’anno per un certo numero di anni, mai stanziati, e di contro, soltanto le spese impegnate per salvare il sistema finanziario dai governi americano ed europeo ammontano ad almeno quindici trilioni di dollari, quindicimila miliardi contro duecentocinquanta miliardi necessari per dimezzare il numero degli affamati, ridurre i bambini sotto i cinque anni che muoiono, il numero di donne che muoiono di parto, e così via.