Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – «Ha ragione Nagel, il consolidamento
bancario italiano è
più facile a parole che nei fatti»,
commenta un ex aspirante numero
uno proprio di Mediobanca,
che piuttosto che accettare le
vecchie regole cucciane per le
quali occorreva aspettare anni e
anni prima di ascendervi di grado
e senza mai superare chi si
aveva davanti, prese la decisione
di mettere a frutto altrove la
propria sapienza di banchiere
d’affari.
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Oggi è un banchiere
molto ascoltato, e con dossier
scottanti tra le mani, perché con
gli anni e la polvere depositatasi
sulla «nuova Mediobanca» della
gestione attuale i numeri uno
dell’industria italiana in difficoltà
è a lui che preferiscono
spesso rivolgersi, riservatamente,
per consulenze straordinarie
o per sondare sponde e salvataggi
internazionali. La tesi del
grande banchiere però è meno
scontata di quel che possa sembrare
d’acchitto, quando gli proponiamo
le dichiarazioni
appena rilasciate
ieri dal direttore
generale di Mediobanca.
«Son tutti lì a
dire e ripetere che il
vero problema è che
manca un nuovo
Cuccia. Sai che scoperta.
In verità a me
sembra che il problema sia un
altro. A mancare non è un grande
banchiere di riferimento, tanto
più dopo la crisi di Bankitalia
e l’avvento di Draghi che considero
salutare. A mancare è un
grande industriale di riferimento,
libero da debiti e al quale
venga riconosciuta l’autorevolezza
di far pesare le proprie opinioni,
tra tutti coloro che stanno
in prima fila nei patti di sindacato
banco-industriali». In altre
parole, se ha ragione il nostro
autorevole banchiere siamo tutti
prigionieri di una grande illusione.
Ci interroghiamo su quanto
la decisa presa di posizione di
Paolo Mieli, del suo Corriere e
della sua Rcs che tanto efficace
si è dimostrata nei mesi scorsi
per dire no ad alcuni sviluppi
proprietari bancari e per difendere
invece i patti di sindacato
mediobancheschi, oltre che nelle
prossime elezioni politiche
possa pesare e contare anche sul
risiko bancario. Mentre invece,
se ha ragione il banchiere
che molte ne
ha viste e non crede
affatto alla nuova
Mediobanca più di
quanto credesse nella
vecchia quando se
ne andò, ha assai più
ragione Giuseppe
De Rita. Il quale ammonisce
che lo scontro tra Prodi
e Berlusconi ha perso ogni capacità
coagulante nella vera classe
dirigente italiana, e che anche
l’editoriale di Mieli di ieri è solo
l’illusione di una grande conta,
in politica come nelle vicende finanziarie.
Perché i non troppi
Del Vecchio italiani, cioè gli industriali
alla testa dei residui
grandi gruppi fuori dalle rendite
monopolistiche e non oberati
dai debiti evocati dal nostro
amico banchiere, si tengono alla
larga tanto dalla conta politica
amico-nemico del prossimo
9 aprile, quanto da quella ostilecolluso
a proposito del sì o del
no su Intesa-Capitalia o San-
Paolo-Montepaschi. «Proprio
così», aggiunge il banchiere prima
di congedarsi. «Quando
Draghi ha ammonito a non anteporre
veti personalistici e
campanilistici alle fusioni bancarie,
ha usato l’unica espressione
adeguata a descrivere un re
ormai nudo. Dovessi pronunciarmi
liberamente io, direi che
il personalismo in dossier come
quello Intesa-Capitalia conta il
70 o addirittura l’80%, rispetto
a qualunque altra considerazione
patrimoniale, reddituale o di
piano industriale. E non parliamo
poi delle ipotesi residue che
riguardano Mps. I Ds danno un
segnale facendo cadere Bassanini
nell’ordine di lista alle
prossime elezioni, ed è come dire
che se Unipol non è riuscita
su Bnl non per questo deve vincere
il partito dei colli senesi.
Ma di qui al fatto che Fassino
riesca a convincere su due piedi
Mussari a portare la banca in
dote a Salza e al Santander facendo
cospicuamente dimagrire
la quota della fondazione senese,
al momento mi pare praticamente
impossibile».
Naturalmente, se il banchiere
ha ragione, ciò vale più o meno
per tutte le ipotesi che riguardano
il Montepaschi, visto che
tutto sommato Fassino tra i
maggiori gruppi ha i rapporti
migliori proprio con l’attuale
vertice dell’istituto subalpino.
Sarebbe politicamente assai più
arrischiata sia l’ipotesi Mps-Capitalia,
che quella Mps-Intesa.
Oltretutto quest’ultima non risponderebbe
affatto al desiderio
sempre più evidente di Corrado
Passera: portare a segno entro
l’anno un megaconsolidamento
sul fronte nazionale di portata
paragonabile a quella di Unicredit
con HVB in Germania e in
Centro-Europa.
Di conseguenza,
visto che la logica impone di
considerare Intesa e SanPaolo
come i due distinti poli aggreganti
del risiko italiano, eccoci
tornati al cuore vero di ciò di cui
si parla in queste settimane. La
vera grande operazione che segnerebbe
la svolta: quella tra Intesa
e Capitalia. I francesi dell’Agricole
ormai hanno non solo
digerito l’ipotesi, ma una volta
che hanno visto confermata la
regola per la quale Batoli non si
muoverà mai senza preconcordare
con loro, sono pronti a metter
mano per la propria quotaparte
al portafoglio anche per
operazioni maggiori della sola
Capitalia.
Lo ha ribadito ieri il
presidente della Banque Vert
René Carron, e non parlava a
caso. Tradotto, significa che anche
l’ipotesi per la quale Capitalia,
a scopo difensivo, mettesse
mano a quella fusione con Antonveneta
in vista della quale ha
sempre fatto il diavolo a quattro
contro Fiorani e contro Fazio,
anche in quel caso e anzi a maggior
ragione il primo socio di Intesa
sarebbe pronto e favorevole
a lanciare un’opa. Sui problemi
di sovrapposizione degli
sportelli in Lombardia e in poche
altre province italiane,si può
contare sul fatto che il presidente
dell’Antitrust non fa altro che
ripetere che in caso di mega aggregazioni
nazionali questa volta
l’Autorità chiuderebbe
giustificatamene
un occhio. Lo ha
ripetuto guarda caso
anche ieri.
Il dilemma centrale
– e torniamo ai
«personalismi» evocati
da Draghi – riguarda
Cesare Geronzi
da una parte. E Matteo
Arpe dall’altra. Quest’ultimo
giustamente ritiene di essere lui,
il deus ex machina che ha portato
il titolo dell’istituto capitolino
a moltiplicarsi per sette in tre
anni. Di conseguenza c’è anche
il suo zampino, in articoli come
quello di ieri del Financial Times
in cui fuori dai denti si scrive che
il mercato si aspetterebbe che
fosse Arpe, l’eventuale ad alla
testa dell’eventuale gruppo Intesa-Capitalia.
Ma è anche vero
che proprio nei parterre di banchieri
italiani dell’ultimo Forex
cagliaritano,condotta una rapida
e riservata inchiesta su quale
fosse la loro opinione sul possibile
esito per Arpe di un’aggregazione
Capitalia-Intesa, molti
scommettevano sul fatto che alla
sua giovane età e con tale
trionfale risultato di gestione e
risanamento alle spalle, tanto
varrebbe capitalizzare una maxi
buonuscita onusta di milioni di
euro, per poi rapidissimamente
trovare nuovi incarichi di prima
fila in altri gruppi. Per un risanatore
come lui, una specie di Enrico
Bondi in erba, meglio trovarsi
alla testa di banche mediopiccole
da rilanciare con furore,
piuttosto che alle
prese con un pachiederma
abbastanza
appesantito come sarebbe
Cap-Intesa.
Il problema, dunque,
come sempre
quando si arriva al
problema dei problemi,
riguarda in realtà
Geronzi. Nell’ultima settimana,
hanno cambiato idea molti di
coloro che giuravano sul nulla di
fatto in cui nei due mesi si sarebbe
risolta l’interdizione dei giudici
parmensi. Le richieste di rinvio
a giudizio riguarderanno tutti
i singoli tronconi dell’indagine
Parmalat, e si aggiungeranno a
quelli per Cirio. Se la fusione
con Antonveneta servirebbe a
Capitalia per prendere tempo e
ancorare ancor più saldamente gli olandesi al proprio tavolo, è
anche vero che difficilmente riuscirebbe
a dare una risposta all’impasse
giudiziario del grande
banchiere romano. «É proprio
così», è stata l’ultima frase del
banchiere ex Mediobanca che
abbiamo interpellato.«Ed è proprio
per questo che la differenza
la fa la mancanza di un grande
industriale, purtroppo. La sua
presenza, consentirebbe una
mediazione tra Bazoli e Geronzi
capace di consegnare alla residua
divisione Capitalia – in un’ipotetica
holding sotto Intesa – il
ruolo in Mediobanca e in Generali
che Geronzi ha caparbiamente
inseguito per anni, scomparso
Cuccia». Il nostro amico
banchiere giustamente considera
prioritaria la partita del valore,
piuttosto che quella dei personalismi.
Perché da ogni ipotetica
risistemazione degli asset
mediobancheschi potrebbero
emergere miliardi di euro oggi
compressi. Tutto sommato, basterebbe
lasciare Rcs com’è oggi,
per non scatenare le folgori di
Mieli. Ma i Tronchetti e i Ligresti
oggi questo potere non ce
l’hanno. E il telefono tra Bazoli
e Geronzi è più facile che lo alzi
sua eminenza Attilio Nicora,che
un industriale italiano.
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