Paolo Cantarella ha rassegnato le dimissioni da amministratore delegato della Fiat tornando forse col pensiero alle gravi crisi che ne hanno scandito l’ascesa sul ponte di comando.
Aveva affiancato Giorgio Garuzzo in Fiat Auto all’indomani dell’allontanamento traumatico di Vittorio Ghidella, dopo lo scontro tra questo e Cesare Romiti.
E assunto la carica di amministratore delegato della holding in concomitanza con l’abbandono della presidenza da parte di Giovanni Agnelli, mentre, come prezzo all’ennesimo salvataggio, da parte di Mediobanca tramontava ogni ambizione di Umberto Agnelli sulla Fiat e anche Garuzzo veniva allontanato.
Cantarella, figlio di un operaio, laureato al Politecnico e subito al lavoro in un’aziendina dell’indotto Fiat, sa da allora che lo stile di questi avvicendamenti vuol dire molto.
E ieri ha preso commiato senza battere ciglio, in coerenza a un habitus mentale che non ha mai dismesso. Ciò non significa che Cantarella, al fianco di Paolo Fresco, non abbia sostenuto “idee forti”, nel corso degli ultimi anni in cui la Fiat era orgogliosamente tornata a liberarsi dalle tutele che Romiti rappresentava.
Quando, sei mesi fa, Roberto Testore aveva dovuto abbandonare la carica di amministratore delegato di Fiat Auto, era a lui che Umberto Agnelli si riferiva, dando “sei mesi di tempo” al management del Lingotto. Si potrebbe dunque parlare di un copione scritto.
Quello che resta da scrivere, invece, riguarda l’efficacia del piano di salvataggio bancario sottoscritto due settimane fa. Di cui la prima mossa, la discesa della Fiat nel capitale di Italenergia, già è entrata in difficoltà, come testimoniato dal rinvio di quarantott’ore dell’assemblea prevista per ieri mattina.
La “forte discontinuità”, di cui le dimissioni di Cantarella sono espressione, chiede ora risposte alle domande di fronte alle quali la stessa General Motors ha fatto capire che, in una situazione tanto diversa da quella di due anni e mezzo fa, anche il recente accordo con loro potrebbe saltare.
La prospettiva di trovare le maggiori banche italiane azioniste di una conglomerata minata nel suo ramo di attività principale, è ciò che Giovanni Agnelli dovrà ora, un’altra volta nella sua vita, evitare.
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