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CAMPANELLO D’ALLARME? NO:
SIRENA BITONALE

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(WSI) –
Chiedersi chi ha vinto l’ultima tornata di elezioni amministrative significa porsi una domanda retorica: solo uno specialista in autoinganno può non vedere quel che è successo domenica e lunedì. Il centro-sinistra ha perso terreno, molto terreno, non solo rispetto alle scorse elezioni amministrative del 2002, ma anche rispetto alle recentissime Politiche del 2006. Così il quotidiano Libero poteva titolare, senza eccessive forzature, «L’Italia s’è destra». Mentre l’Unità, impermeabile ai fatti, preferiva parlare di «pareggio», di «sostanziale tenuta».

Già, perché quel che sfugge a molti politici dell’Unione è innanzitutto il trend, ossia il segno e la forza delle tendenze elettorali in atto. Nel 2001-2002 il centro-destra era ancora sulla cresta dell’onda. Contrariamente a quel che molti ritengono, la tornata amministrativa del 2002 non era andata male per la Casa delle libertà, semplicemente non aveva replicato pienamente l’eccezionale risultato delle precedenti elezioni regionali (2000) e politiche (2001).

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Il declino della Casa delle libertà e la grande avanzata dell’Unione si sviluppano dopo il 2002, soprattutto nella seconda metà della legislatura scorsa. Alla fine del 2005, dopo le vittorie alle Europee e alle Regionali, l’Unione ha un vantaggio molto ampio sulla Casa delle libertà, e una vittoria alle imminenti Politiche – una vittoria larga, se non trionfale – appare ormai a portata di mano. Invece nei mesi immediatamente precedenti le elezioni del 2006 il trend si inverte, la destra recupera, e solo per un soffio manca una vittoria che sarebbe suonata come una clamorosa sorpresa per (quasi) tutti.

Nei primi mesi del governo Prodi, e in particolare ai tempi del decreto Bersani sulle liberalizzazioni (fine giugno), il trend favorevole alla destra si interrompe per un po’, ma riprende vigoroso già alla fine dell’estate, dopo il varo dell’indulto (fine luglio) e la presentazione della Finanziaria (fine settembre).

Da quel momento i sondaggi mostrano un sensibile e progressivo spostamento del pendolo elettorale verso destra, uno spostamento di cui tuttavia risulta difficile stabilire il grado di realtà: spesso gli elettori scontenti (del governo Prodi, in questo caso) «abbaiano» nelle interviste telefoniche, ma poi non «mordono» nelle cabine elettorali. Di qui l’importanza – almeno sondaggistica, se non proprio politica – del test amministrativo che si è appena svolto: esso certifica, proprio perché avvenuto su un terreno tradizionalmente favorevole alla sinistra (elezioni locali), che il pendolo sta effettivamente oscillando verso destra e, complice forse il vento antipolitico delle ultime settimane, non sembra segnalare la benché minima inversione di tendenza. Se non interverranno novità clamorose, la sconfitta della sinistra alle prossime elezioni potrebbe assumere proporzioni tali da far rimpiangere il risultato di lunedì.

Che questo scenario di tracollo della sinistra sia salutare, pernicioso, o semplicemente irrilevante per il futuro del Paese nessuno può dirlo con certezza. C’è però un aspetto paradossale, che mi colpisce profondamente, nella storia elettorale recente dell’Italia. In tutti gli anni in cui al governo c’era la Casa delle libertà, ossia dal 2001 al 2006, la Lega e il suo progetto federalista sono stati accusati di attentare all’unità del Paese, di rompere il patto costituzionale, di voler dividere gli italiani. Tutte le forze di sinistra e molti dei maggiori quotidiani hanno guardato con diffidenza al referendum sulla devolution, come se da esso dovesse scaturire una catastrofe del nostro vivere civile. Oggi che, con la vittoria dei no, il progetto federalista è stato sconfitto, le riforme istituzionali di cui si torna a parlare assomigliano in modo impressionante a quelle sdegnosamente respinte due anni fa.

Soprattutto, oggi diventa sempre più chiaro che è l’incapacità della sinistra di capire il Nord la maggiore fonte di divisione del Paese. Un’incapacità che riguarda tutto – tasse, infrastrutture, meritocrazia, criminalità, immigrazione – e non è esclusiva della sinistra massimalista, ma tocca lo stesso Partito Democratico, mestamente moribondo ancor prima di nascere.

Insomma, è paradossale ma fino a ieri, con la destra al governo, le pulsioni secessioniste della Lega erano tenute a freno da due partiti meridionalisti come Alleanza nazionale e l’Udc. Oggi che la devolution è naufragata e al governo c’è la sinistra, quelle medesime pulsioni tendono a risorgere anche perché non esiste nessun partito, nessun leader, nessun ministro che sia in grado di tenere a freno le pulsioni antinordiste dell’Unione. Dove per pulsioni antinordiste dobbiamo intendere due cose molto semplici, e più precisamente un’omissione e un comportamento: nessun taglio alle tasse sui ceti produttivi, rilancio in grande stile del partito della spesa. Due tentazioni che potrebbero risultare fatali per il futuro del Paese, ma che proprio la sconfitta elettorale rischia di rendere irresistibili per chi ci governa (specie se vuol continuare a farlo a qualsiasi costo).

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