Paolo Madron e’ il Direttore di Panorama Economy.
Al calcio verrebbe tanta voglia di dare un calcio, giusto per togliere
di mezzo lo spettro delle sinistre immagini raccolte dentro e fuori
Roma-Lazio. Ma siccome trattasi di un’industria (qualche tempo fa una
nostra inchiesta ne ha quantificato in oltre 4 miliardi di euro il
volume d’affari), una delle tante che ha vissuto al di sopra delle sue
possibilità – nel senso dei costi che superano abbondantemente i ricavi
– , non si può indulgere al moralismo.
Dunque, in un Paese dove, per
cultura e fragilità del suo mercato, niente può fallire, dobbiamo
digerire un intervento del governo per salvare lo sport nazionale dalla
bancarotta. Al quale sport ci lega poco la fanatica passione, ma molto
l’interesse per le sue ripercussioni collaterali. Quelle per cui un
problema locale si riflette d’emblée in un dibattito che coinvolge le
paludate istituzioni comunitarie. Il tema, ovviamente, è quello della
concorrenza violata, di come spalmare l’Irpef nel tempo configuri un
improprio «aiutino» di Stato cui Bruxelles si oppone con inflessibile
tenacia.
Fatte le debite proporzioni, si vede come i patemi del calcio
siano assimilabili a quelli dei partner di Eurolandia ai quali,
inadempienti rispetto ai parametri del deficit, non resta che infrangere
la regola. Insomma, è la stessa faccia della medaglia: così come le
squadre, anche i singoli Paesi non riescono a far quadrare i conti. Il
calcio, direbbe qualcuno, è metafora della vita, economia compresa.
L’altra faccia che si contrappone è quella tutta d’un pezzo inneggiante
all’Europa del rigore, della libera concorrenza, dei patti i quali,
anche se stupidi (copyright di Romano Prodi), meritano rispetto. Il
risultato è un accentuato strabismo, che fa dell’Europa un’utopia forte
soverchiata nella realtà da un insidioso melting pot di problemi,
interessi e pulsioni irrazionali. Un terreno dove a guadagnare posizioni
è chi si muove con più spregiudicatezza.
Come fanno i francesi che,
mentre si preparano a dare battaglia sul decreto salvacalcio, continuano
come se nulla fosse a finanziare le proprie aziende pubbliche. Per
quanto possa scandalizzare – nella scala delle rogne i circenses non
possono certo essere equiparati al panem – quello che sta succedendo al
mondo del pallone potrebbe costituire un ulteriore motivo di riflessione
sulla crisi dell’architettura comunitaria. Se l’economia, su cui
l’instabilità geopolitica e il boom della produzione cinese allungano
ancora pesanti ombre, non riprende il suo ciclo virtuoso, qualcuno dovrà
prendere il coraggio a quattro mani e dichiarare l’eredità di Maastricht
obsoleta. Un atto di realismo, oltre che l’occasione per riformulare le
tappe di un progetto che mantiene intatto il suo originario valore.
Lo
spunto potrebbe venire dal profilarsi, dopo mesi di stallo, del
possibile via libera alla Costituzione europea. Anche se a contare non
sono gli appuntamenti canonici ma l’atteggiamento con cui ci si
presenta. Ammesso che tutti siano d’accordo nel ritenere urgente colmare
la divaricazione tra la forma e la sostanza, tra l’Europa perfetta dei
trattati e quella che si fa disarticolata e convulsa nello sforzo di
rispettarli.
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