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(WSI) – Quella passata è stata una settimana frenetica. È cominciata con la grande paura sulla sorte di Fannie Mae e Freddie Mac e con il crack della banca californiana IndyMac; è proseguita con l’annuncio di un piano di salvataggio delle due grandi agenzie americane, che finanziano o garantiscono la metà dei mutui ipotecari statunitensi, con la discesa in campo del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, e con le rassicurazioni dello stesso presidente Bush; è continuata con una serie di operazioni tese a sostenere i mercati finanziari, come l’introduzione di norme che vietano la vendita allo scoperto di 19 titoli finanziari, e si è conclusa con un rimbalzo dei mercati azionari, trainato dalla forte discesa del prezzo del petrolio e dai risultati di Citigroup, la più grande banca del mondo, che malgrado le perdite sono stati comunque considerati migliori delle aspettative.
Il tratto comune di questi interventi è quello dell’intervento dello Stato federale americano (e quindi dei contribuenti) a sostegno del sistema finanziario e la trasformazione – come ha scritto il professor Avinash Persaud – delle banche centrali (e non solo la Federal Reserve, ma anche la Banca centrale europea e la Banca Nazionale Svizzera) da prestatori di ultima istanza ad acquirenti di ultima istanza di titoli legati al mercato immobiliare americano che le banche non riescono più a vendere.
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Tutti questi interventi, volti a ridare ossigeno al sistema bancario, dimostrano che la cosiddetta crisi dei mutui subprime, che è prossima a «festeggiare» il suo primo anno di vita, è lungi dall’essere conclusa. Ci si può comunque interrogare se il piano per salvare Fannie Mae e Freddie Mac e soprattutto i 5300 miliardi di dollari di titoli in circolazione, grazie ai quali le due agenzie finanziano il mercato immobiliare statunitense, possa avere un effetto tonificante sui mercati simile a quello che ebbe alla fine di marzo l’operazione che evitò la bancarotta di Bear & Stearns. In altri termini, ci si può domandare se siamo alla vigilia di un’altra fase di bonaccia di questa crisi.
Quest’ipotesi non è da escludere. La risposta dipende però dall’andamento di un’altra variabile: il prezzo del petrolio. L’attuale rimbalzo delle borse appare dovuto in primo luogo alla discesa del greggio, che è sceso al di sotto dei 130 dollari, perdendo in due giorni circa 20 dollari il barile e confermando che la sua esponenziale ascesa, che lo ha portato pochi giorni orsono a stabilire il primato di 147 dollari, è il frutto della speculazione finanziaria (in questi ultimi giorni non vi è stato infatti alcun fatto nuovo che giustifichi questo calo).
Oggi non si può però escludere che anche questa bolla stia scoppiando e che quindi il prezzo del petrolio possa ancora scendere. Una simile eventualità darebbe maggior fiato al rimbalzo delle borse, ma non cambierebbe in modo sostanziale i parametri della crisi finanziaria ed economica, il cui epicentro è negli Stati Uniti. Infatti, il continuo calo dei prezzi delle case non lascia intravvedere alcun sollievo per il settore finanziario. Inoltre, l’esaurimento degli effetti positivi sui bilanci delle famiglie americane dei ristorni fiscali previsti nel piano di 110 miliardi di dollari varato dal Congresso induce molti economisti a prevedere una brusca frenata dei consumi, che verrebbe ad aggiungersi alla stretta nella concessione dei crediti che stanno operando le banche americane. Tutto ciò induce a ritenere che l’economia americana possa cadere nella recessione cui finora è riuscita a sfuggire.
Pure in Europa si moltiplicano i dati che mostrano una brusca frenata della crescita anche di quella che è stata finora l’economia più resistente, ossia quella tedesca. Per questi motivi appaiono giustificati i timori di una recessione globale dei paesi di vecchia industrializzazione avanzata giovedì scorso dal capoeconomista del Fondo Monetario internazionale.
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