George W. Bush si è messo nei pasticci. Aveva tra le mani una coalizione senza precedenti per fare la guerra al terrorismo. Si ritrova contro una coalizione senza precedenti a dire no alla sua guerra all’Iraq. Si dice, lui continua a dire, che la farà lo stesso. Non si vede come a questo punto possa tirarsi indietro anche se lo volesse. Ma se la facesse ora rischia di farla da solo, o quasi.
Ha fretta. E “pour cause”: sa che il tempo e i mercati non lavorano per la soluzione militare. Ma a trattenerlo non sono più solo Francia e Germania. Ovvero, quella che il suo segretario alla Difesa Donald Rumsfeld sprezzantemente ha chiamato la «vecchia Europa» (in contrapposizione all’Est, verso cui ritiene si stia ora spostando «l’asse» del continente e, forse, altri spigliati «uomini nuovi» in cerca di legittimazione). Ora anche Cina e Russia, che pure sembravano volersi defilare. Il no, o almeno l’invito ad andarci piano, trova uniti, una volta tanto, India e Pakistan, islamici moderati e islamici anti-occidentali, Grecia come Turchia, tutti i vicini dell’Iraq, persino i nemici giurati di Saddam Hussein. A rivelarsi «inaffidabile» non è più solo l’Onu, gli ha detto di no anche la Nato, che pure era intervenuta in Kosovo senza un’esplicita autorizzazione Onu.
L’amministrazione Bush aveva chiesto a 53 Paesi di partecipare alle operazioni militari contro l’Iraq, fatto appello (nelle parole di Bush) ad una «coalition of the willing», una coalizione ad hoc di «quelli che ci stanno». Il segretario di Stato Colin Powell sostiene che «una dozzina» sarebbero disponibili, anche se non ha voluto elencarli. Sta di fatto che a mobilitare truppe nella regione, accanto agli americani, risulta siano stati sinora solo Gran Bretagna, Australia e Repubblica ceca.
Tra i «volontari» l’altro giorno il portavoce della Casa Bianca ha citato Italia e Spagna. Non è ancora chiaro se perché il nostro ministro degli Esteri Frattini, seguendo le istruzioni ricevute o facendo un gioco delle parti con un imbarazzato Berlusconi, gliene aveva dato il destro.
O perché a Washington sono ormai tanto disperati da arruolare a forza nella squadra anche chi non è ancora in grado di decidere quale scarpa allacciarsi. Il ministro degli Esteri di Aznar, Ana Palacio, ha poi precisato di fronte al Parlamento spagnolo che ritiene «inevitabile» la concessione dell’uso di una base aerea e una navale se si dovesse arrivare all’intervento, ma che Madrid non ha assunto alcun impegno. Berlusconi ha anche lui stemperato, sostenendo che «l’Italia non è chiamata alla guerra» e mettendo le mani avanti sul fatto che possono decidere «solo le Nazioni Unite» e il Parlamento italiano. Ma anche ai giocolieri è difficile tenere a lungo il piede in due scarpe. Già oggi a Bruxelles l’Italia dovrà far capire se sta con Bush che ha fretta di guerra o con gli altri europei uniti (anche l’Inghilterra) nel ritenere che si debba dare «più tempo» agli ispettori. La stampa britannica nota che persino Tony Blair, sinora nelle vesti di «alleato più fedele» di Bush, è ora in difficoltà, «preso in mezzo a spinte contrastanti» (Financial Times) e «verrà presto il momento in cui sarà costretto, gli piaccia o meno, a scegliere tra Europa e Stati Uniti» (The Independent).
Le diffidenze non sono solo politiche e diplomatiche. Investono ora anche personalità della cultura che erano collocate in primo piano a fianco dell’America nella trincea contro il terrorismo, e per la difesa dei valori dell’«Occidente». Jonh le Carré, il grande cantore dello spionaggio occidentale negli anni della Guerra fredda, ha scritto che l’America che ora vuole fare la guerra all’Iraq deve essere uscita di senno, peggio di quando fece la guerra al Vietnam. Salman Rushdie, che da anni vive quasi clandestino in America per sfuggire ai sicari islamici, ha dichiarato ieri in una conferenza a Londra che «benché Saddam Hussein sia uno dei peggiori tiranni al mondo, gli Stati Uniti si infilerebbero in un colossale pasticcio se si infilassero a capofitto in questa guerra».
In questo quadro, tutti gli osservatori tendono a dare per scontato che «il momento della verità», non sarà più oggi, 27 gennaio, la data prevista per la presentazione da parte degli ispettori dell’Onu del loro primo rapporto al Consiglio di sicurezza.
Le attese si concentrano invece per quello che dirà l’indomani il presidente americano nel suo secondo discorso sullo stato dell’Unione. Hanno anticipato, dalla Casa Bianca, che sarà un discorso in cui dirà all’America di «prepararsi alla guerra», ma «non sarà un discorso in cui dichiarerà la guerra». Sembra anche che non ci saranno risposte agli interrogativi che gli vengono rivolti in modo sempre più pressante non solo dagli oppositori ma anche da chi è più che disposto a prendere per buone le motivazioni con cui hanno sinora giustificato la guerra: hanno o non hanno le prove sulla pericolosità imminente del regime di Saddam Hussein? Sino a quando potranno continuare a dire «noi lo sappiamo ma non ve lo diciamo»? Eppure a chiederglielo ora è anche l’opinione pubblica americana, non solo il resto del mondo.
Ci sono segnali che sia rassegnato ad aspettare. Non è chiaro per quanto. Ancora qualche settimana, si dice. «Non c’è fretta di precipitarsi nel giudizio oggi o domani, ma è chiaro che il tempo sta scadendo», è il modo in cui l’ha messa ieri Powell in trasferta al World Economic Forum a Davos. Hanno certamente i mezzi per fare la guerra da soli, ma decidere di farla da soli non è così facile nemmeno per Bush.
Ma come ha fatto un presidente americano a ritrovarsi così solo, a poco più di un anno da quando Le Monde, il giornale leader dell’opinione nella Francia ora alla testa del fronte del rifiuto, aveva titolato «Nous sommes tous americains»? C’è chi ha suggerito: abbastanza per caso, dal giorno in cui, poco dopo l’attentato alle Torri gemelle, aveva deciso che era venuta l’occasione per saldare i conti aperti con Saddam.
C’è chi fa risalire la svolta al discorso in cui, esattamente un anno fa, annunciò la guerra contro l’«Asse del Male». La frase fu coniata, da uno dei suoi speech-writer, David Frum. Frum, che è in disgrazia alla Casa Bianca da quando ha scritto un memoriale in cui definisce il suo ex datore di lavoro «facile alla collera, talvolta facilone, persino dogmatico, spesso privo di curiosità e, di conseguenza, male informato», racconta che all’inizio aveva proposto «fronte dell’odio», ma il suo superiore, lo speech-writer capo Michael Gerson, gli disse di trovare qualcosa che meglio si confacesse al «linguaggio teologico assunto da Bush dopo l’11 settembre», in sostanza di «trovare una giustificazione per la guerra all’Iraq».
Il risultato è che il mondo, che già sapeva di non potersi fidare di Saddam Hussein ha scoperto tragicamente, molti certamente controvoglia, di non potersi fidare molto di più nemmeno di George Bush.
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