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BORSE: MIGLIORI QUELLE DEI PAESI CHE NON CRESCONO

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*Michele Pezzinga e’ lo strategist di CentroSim. I suoi commenti non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

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(WSI) – Non è ancora chiaro se l’economia USA stia decelerando o mantenga ancora i
buoni ritmi di crescita della seconda metà del 2004. Anche i dati, si sa,
possono essere oggetto di differenti interpretazioni; in economia tutto è
sempre più complicato di quanto si creda.

Il calo delle richieste di
sussidio, per esempio, che ieri hanno toccato, a quota 303mila, il loro
minimo settimanale dall’ottobre 2000, apparirebbe incoraggiante per le
prospettive del mercato del lavoro, ma non bisogna dimenticare la
distorsione legata alla continua riduzione del tasso di partecipazione
della forza lavoro, scesa negli ultimi cinque anni dal 67,3 al 65,8%. Alla
sua base vi è proprio la crescita stentata dell’occupazione, che spinge
molti potenziali lavoratori a rinunciare alla ricerca di un posto, il che
contribuisce a ridurre anche le richieste di sussidi temporanei, oltre che
la crescita degli occupati.

Anche il calo del disavanzo commerciale di
dicembre, da 60 mld circa a 56,4 mld, potrebbe sembrare un buon segnale,
favorito dalla ripresa dell’export (+3,2%) sulla debolezza del cambio,
particolarmente accentuata a fine anno; ma su quel numero ha influito
parecchio (per oltre 2 mld di dollari) anche il calo dei prezzi
dell’energia (il prezzo medio all’importazione del greggio a dicembre era
sceso dai 41,1 dollari il barile del mese precedente ai 36,1), un fenomeno
che, insieme al dollaro, ad oggi risulta parzialmente rientrato. In ogni
caso, il minor disavanzo contribuirà ad una lieve revisione al rialzo
della crescita del PIL nell’ultimo trimestre 2004, rispetto al +3,1%
preliminare, ma curiosamente non ha offerto alcun sostegno al dollaro, che
proprio dopo l’annuncio di questi dati ha esaurito il rally che l’aveva
portato ad un massimo di periodo nell’area 1,27 contro euro.

La nostra
idea rimane comunque immutata, crescita USA attorno al 3% nella prima
parte dell’anno, destinata poi a ridursi nella seconda metà a causa
dell’effetto, ritardato, dei rialzi dei tassi e del maggior costo
dell’energia, che si esprime con la massima intensità con un lag temporale
di circa 12 mesi dal momento in cui si realizza il movimento delle due
variabili in causa.

Tutto ciò potrà senza dubbio influire sulla politica
della FED, che a giudicare dal commento rassicurante di uno dei falchi del Board nei giorni scorsi, potrebbe forse rimanere alla finestra da metà
anno in avanti, una volta raggiunta quota 3% sui Fed Funds. Riflessi si
vedranno anche sul mercato obbligazionario, mentre più incerto è l’effetto
atteso su Wall Street. La Borsa preferirebbe una crescita robusta, a costo
però di maggiori rischi di ripresa dell’inflazione e/o ad una politica
monetaria più restrittiva, o una crescita più fiacca, che però interrompa
l’ascesa dei tassi e favorisca magari un’ulteriore discesa dei rendimenti
a lunga, in modo da stimolare ancora di più il miracoloso “effetto
liquidità” emerso negli ultimi mesi?

A questo proposito, un recente studio della London Business School,
sponsorizzato da ABN Amro, mette in totale discussione un importante luogo
comune, consolidatosi anche tra gli addetti ai lavori: che i listini
rappresentativi dei Paesi a più elevata crescita economica siano anche
quelli che garantiscono i maggiori ritorni azionari. Quindi, se vogliamo
estendere il significato dell’analisi, anche il nesso più generale tra
Borse e crescita economica potrebbe essere messo in forse. La logica
vorrebbe che i profitti aziendali rappresentino una quota costante del PIL
e che una rapida crescita economica si rifletta anche sui profitti, i
dividendi e di conseguenza i ritorni per gli azionisti. Ma non è così:
“storicamente – affermano i tre autori del rapporto, Dimson, Marsh e
Staunton, che hanno effettuato un’analisi su 53 mercati negli ultimi 105
anni – l’acquisto dei mercati azionari con un più elevato tasso di
crescita del PIL ha offerto un ritorno inferiore a quello dei mercati
associati a bassa crescita del PIL”.

Anche un ipotetico investimento sul
mercato azionario effettuato tenendo conto della rispettiva performance
economica nei precedenti cinque anni avrebbe portato a conclusioni
analoghe: dai mercati dei Paesi caratterizzati da minor crescita del PIL
si sarebbe ottenuto un ritorno medio annuo del 12%, esattamente il doppio
rispetto a quanto invece offerto da quelli associati a più elevata
crescita. Tipico esempio, aggiungerei io, la Cina, la cui impressionante
crescita economica nel 2004 (+9,5% il PIL) si è accompagnata ad un listino
azionario in calo di ben il 21% in termini reali. E non si tratta di
un’anomalia: è dal 2000 che la crescita cinese viaggia su ritmi
costantemente superiori al 9%, mentre da allora il principale indice
azionario locale ha ceduto ben il 45%, e continua a perdere terreno in
termini assoluti, oltre che relativi. Ognuno può trovarci le spiegazioni
che crede più opportune, ma il punto rimane che se non esiste una
correlazione tra crescita economica e sottostante performance di Borsa,
anche lo sforzo titanico di prevedere l’esatto andamento congiunturale
(ammesso che sia coronabile dal successo…) rischia di essere inutile.

A
mio personale avviso, forse nel mondo reale la psicologia funziona meglio
dei modelli finanziari: una crescita lenta, ma capace comunque di
garantire un soddisfacente aumento dei profitti (finchè dura: la quota dei
profitti non può infatti salire all’infinito, e ora negli USA siamo già su
un massimo relativo), in un contesto di rendimenti obbligazionari sempre
più compressi, viene infatti percepita come una condizione ideale per i
mercati.

E’ in un simile scenario che l’illusione monetaria e l’effetto
liquidità, due risultati dei bassi rendimenti obbligazionari, possono
manifestarsi al meglio, facendo miracoli sul valore di tutte le attività
finanziarie (e su quelle immobiliari). Paradossalmente, entrambe
sparirebbero proprio se l’economia dovesse bruscamente ripartire,
portandosi dietro anche un netto rialzo dei rendimenti obbligazionari a
lunga scadenza. Meglio non chiedere quindi troppo alla crescita economica,
e accontentarsi del sostegno costante fornito dalle Banche Centrali e
dalle Amministrazioni pubbliche in disavanzo. L’importante, a breve, è che
questa condizione ideale di crescita modesta e liquidità abbondante possa
durare il più a lungo possibile; sperando però che, a furia di rallentare,
non si finisca come nel Giappone degli anni ’90, nel qual caso la festa continuerebbe solo sul reddito fisso…

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