*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori e clientela professionale ai sensi dell’allegato n.3 al reg. n.16190 della Consob. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI) – Oggi nel mondo c’è deflazione e inflazione, come dire che piove con il sole. C’è anche, contemporaneamente, crescita, stagnazione e recessione. C’è un dollaro forte e debole. Ci sono oro,
petrolio e materie prime destinati a scendere ma anche (più avanti) a salire. Su questo quadro tempestoso ma ancora vitale aleggia la minaccia mortale, l’Iran. Una minaccia remota, come un tuono lontano che lentamente si avvicina.
Per tentare di capire quello che succede bisogna partire dalla corsa folle dell’economia mondiale negli anni dal 2003 al 2007, quando il Pil globale è aumentato di più di un quarto. Corse di questo tipo finiscono a volte per cause esogene (guerre, shock di varia natura), per scelte sbagliate di policy, per eccessi di leva e conseguenti bolle di asset o per morte naturale. La morte naturale è quando l’economia globale cresce a lungo più della crescita della produttività. Da un certo punto in avanti non ci sono più risorse inutilizzate (disoccupati da impiegare, miniere inattive da iniziare a sfruttare, impianti fermi dalla crisi precedente da riattivare) e la crescita si trasforma in inflazione.
Il grande ciclo 2003-2007 è finito prima di tutto per morte naturale, ma anche per eccessi di leva e infine per errori di policy in sé non gravissimi, ma che messi insieme al resto hanno creato il quadro che vediamo. Non è una tempesta perfetta perché manca il primo elemento, l’esogena, e speriamo di
cuore che l’Iran non voglia crearla.
La crescita del 2003-2007 è stata così forte e ha accumulato una velocità tale da non finire tutta in una volta. E’ come un’armata che corre all’assalto verso il nemico a velocità crescente e a un certo punto inizia qua e là a trovare ostacoli, ma non su tutta la linea. Succede così che qualche parte del fronte si deve fermare, qualche altra deve addirittura arretrare mentre ci sono ancora zone in cui l’avanzata continua.
Questo quadro articolato (con gli emergenti che continuano a crescere, Europa e Giappone che si stanno fermando e l’America che si avvia verso un quarto trimestre di probabile recessione) è una benedizione perché ci evita, finché dura, una recessione globale simultanea. Il prezzo da pagare per questo è che questa crescita bassa e irregolare (il mondo è ancora in crescita, nel suo complesso) durerà a lungo, tutto quest’anno e gran parte del prossimo, con qualche effetto strutturale anche negli anni successivi.
Non si può avere tutto dalla vita. La storia naturale di una crisi da surriscaldamento prevede l’arresto del motore, il raffreddamento e il riavvio (tanto più vivace quanto più lungo è stato il raffreddamento). Se però si interviene con provvedimenti di policy (monetari o fiscali) il raffreddamento è meno intenso, ma il riavvio è lento e zoppicante.
Il petrolio, come nota JP Morgan, può ben scendere del 20 per cento dai massimi, ma i colli di bottiglia del sistema sono molti, le risorse inutilizzate poche, è il riequilibrio sarà comunque faticoso.
Questo non toglie che la discesa delle materie prime non sia da una parte dovuta (il ciclo sta rallentando ovunque) e dall’altra provvidenziale, perché arriva in un momento di fragilità, questo secondo semestre in cui i prezzi delle case continuano a scendere ed erodono la ricchezza dei consumatori e il capitale delle banche.
Questo bear market rally del dopo Fannie/Freddie è più irregolare e meno impetuoso del rally di Bear Stearns di marzo e aprile, ma è per qualche aspetto più motivato. Allora il combustibile del rialzo era l’idea, tutta da dimostrare e presto smentita, che la crisi finanziaria era finita. Oggi il combustibile è un dato reale, il petrolio che scende da 147 a 118 e fa apparire il 5 per cento dell’inflazione headline come un picco temporaneo cui seguirà una rapida discesa. Con un incubo in meno (quello dell’inflazione) le banche centrali avranno più spazio per evitare di alzare i tassi e, nel caso, per abbassarli.
Il petrolio che scende è dovuto a un calo reale di domanda in America e a un calo supposto in Cina dopo le Olimpiadi. Un contributo viene da un aumento di produzione saudita e un altro da una speculazione che si è messa al ribasso con entusiasmo. Il mercato rimane comunque in mano ai produttori e al buon cuore di alcuni di loro, non ai consumatori. Perché torni in mano ai consumatori bisogna che la riduzione di domanda divenga definitiva e su questo è lecito qualche dubbio. L’America ha una sensitività straordinaria al prezzo in salita (quando supera la soglia del dolore) ma ne ha altrettanta al prezzo in discesa. Chi abbandona l’auto per il treno appena può torna all’auto.
Aleggia poi, dicevamo, la questione iraniana, sempre più calda. L’Iran sembra avere rifiutato, dopo quella europea, anche l’offerta americana. Israele è in un momento di fibrillazione politica che ruota in particolare sulla risposta da dare alla minaccia iraniana. Il dibattito andrà avanti fino a metà settembre e probabilmente anche oltre, ma il tempo passa veloce.
Nonostante l’Iran questo rally ha ancora del tempo e dello spazio, a condizione che il petrolio non risalga. Per qualche settimana ancora i dati macro americani saranno più che passabili e quelli societari indicheranno che il sistema rimane vitale.
Il rally non dovrebbe danneggiare i bond (anche a loro fa bene il petrolio che scende) e dovrebbe continuare a favorire un modesto e temporaneo recupero del dollaro.
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