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BORSA USA: DUE MESI DI ORSO E POI VIA AL MINI-RALLY

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*Alessandro Fugnoli e’ lo strategist di AbaxBank. Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Il problema dei mercati, in questa fase, è l’iperstimolazione. Arrivano dati macro di agosto molto buoni, mescolati con dati di settembre post-uragani prevalentemente brutti, con molta inflazione e pochi consumi. Per cercare di capire il futuro si scruta poi il petrolio, ma anche qui lo strabismo è massimo.

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Il mercato del petrolio vive infatti in una situazione di notevole schizofrenia. I danni irreversibili degli uragani sono stati minimi (il che indurrebbe a vendere greggio e comprare azioni) ma quelli temporanei sono stati notevoli, il doppio di quelli che l’anno scorso a quest’epoca causarono una discesa del 5 per cento dell’SP 500 (il che indurrebbe a comprare greggio e vendere azioni). Gli effetti dei danni si protrarranno fino a gennaio e si comporranno con una discesa veloce delle scorte, che rende il quadro molto vulnerabile. A bilanciare questo, tuttavia, ci sono due fattori positivi potenti (almeno per il momento).

Il primo fattore positivo è la volontà del governo americano di usare le riserve strategiche anche in modo aggressivo. L’amministrazione Bush si è trovata in grosse difficoltà dopo Katrina. Prima ha trascurato la questione, poi ha reagito scompostamente cercando di tamponare la falla con un piano di aiuti gigantesco. Il segno più evidente dell’affanno è stata la nomina di Harriet Meirs alla Corte Suprema. Pur di evitare uno scontro con i democratici, l’amministrazione ha scelto una candidatura di basso profilo, rinunciando al sogno coltivato da vent’anni di cambiare radicalmente il segno politico della corte per il prossimo decennio e oltre. Lo stesso affanno lo si è visto con il petrolio e con la decisione di usare tutte le riserve necessarie a stabilizzarne il prezzo.

Il secondo fattore positivo è che, dopo più di due anni di rialzi del petrolio, la domanda di greggio e di derivati sta finalmente mostrando segni di elasticità. Nelle ultime quattro settimane è calata, negli Stati Uniti, del 3 per cento rispetto a un anno fa. E’ un dato molto significativo I due fattori positivi citati vanno certamente presi con qualche cautela.

L’amministrazione Bush sta riprendendosi nei sondaggi. Superata la fase di panico, la disponibilità ad utilizzare le riserve potrebbe ridursi. Usarle troppo aggressivamente, inoltre, provocherebbe una riduzione eccessiva e artificiosa dei prezzi, tale da compromettere il calo della domanda che si è verificato spontaneamente. Questo calo, oltretutto, si è verificato in un contesto di enorme rilievo mediatico dato nelle settimane scorse agli uragani e alla benzina. Molti si sono spaventati e hanno preso sul serio gli allarmi e gli appelli a ridurre i consumi. Se però il prezzo scende troppo, si tornerà in qualche misura alle vecchie abitudini.

Mettendo insieme tutto quello che abbiamo detto, il quadro del petrolio, di qui a primavera, non appare troppo inquietante. Anche nell’ipotesi che occorrano tre mesi per fare tornare la produzione del Golfo del Messico alla normalità, gli interventi verbali e un uso sapiente delle riserve possono mantenere il greggio molto vicino ai 60 dollari, con rialzi limitati e temporanei nel caso faccia particolarmente freddo. Un prezzo tra 60 e 65 può tranquillizzare i consumatori e al tempo stesso indurli a rendere irreversibile almeno una parte dei risparmi energetici di queste ultime settimane. Alla fine ce la caveremo anche questa volta, con l’avvertenza che forse è l’ultima.

Che ce la caveremo è anche la scommessa della Fed, più preoccupata per l’inflazione che per la crescita. I rialzi dei tassi continueranno. Non bisogna però nemmeno sopravvalutare i toni particolarmente aggressivi che la Fed sta usando in questi giorni. Dopo gli uragani si è creato un notevole disordine nel sistema dei prezzi e nel disordine le aziende provano a ritoccare i listini. La Fed vuole evitare che questi esperimenti abbiano successo e deve intervenire energicamente, se occorre anche deprimendo temporaneamente i mercati obbligazionari e azionari.

La nostra scommessa è che la Fed avrà successo anche questa volta. Potremmo dunque avere un ottobre e un novembre non particolarmente gradevoli per i mercati, ma a dicembre tutto potrebbe cominciare ad apparire sotto una luce migliore.

In rapida sequenza vedremo infatti, fra qualche settimana, la ripresa graduale della produzione nel Golfo del Messico, il placarsi delle pressioni inflazionistiche, una riaccelerazione dei consumi, il distendersi dei toni della Fed e un rally di fine anno delle borse. Più si scende adesso, più si risalirà più avanti. Il copione, a ben vedere, è lo stesso del luglio e dell’ottobre 2004 e del marzo aprile di quest’anno. La differenza è che il ciclo di espansione è più vecchio (e comincia a mostrare l’età con la decelerazione della produttività) , i tassi sono più alti e la bolla della casa volge al termine. Il rialzo di borsa di fine anno sarà dunque, questa volta, in tono minore.

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