*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori e clientela professionale ai sensi dell’allegato n.3 al reg. n.16190 della Consob. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI) – Per i mercati (…) si traduce tipicamente nella drammaticità dei crash da una parte e nella interminabile sequenza di giornate identiche e vuote che caratterizza le fasi depressive di lunga durata come il decennio scorso in Giappone. In questa fase, tuttavia, non vediamo né drammaticità né rassegnazione. Vediamo piuttosto un grande numero di medici che si affollano giorno e notte intorno al malato per settimane e mesi. I medici sono iperattivi, discutono animatamente, somministrano cure di ogni tipo al malato e lo costringono, a forza di adrenalina ed eccitanti molto potenti, a sentirsi spossato ma al tempo stesso vitale, a volte stranamente euforico.
Il risultato è che il paziente non fa il malato, non cerca di evitare gli sforzi e di stare a riposo nella penombra della liquidità e del risk free. No, il paziente è preso dalla frenesia, agisce in modo incoerente, riduce il rischio la sera e lo aumenta la mattina, cerca di non perdere ma sente di potere anche guadagnare, si butta da una parte e poi dall’altra. Vende la borsa e compra il petrolio, l’oro, l’euro, poi si rovescia e fa il contrario. E’ febbrilmente attento alle minuzie di questo o quel piano di ricapitalizzazione, gli fa girare intorno le sorti dell’economia globale, ma in compenso è quasi cieco sulla sua situazione, non ha ancora capito se è malato o no, se è grave o no, se i problemi si risolveranno a maggio oppure si trascineranno per anni, con prognosi forse infausta.
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Questa condizione generale di nevrosi è il prezzo da pagare per il tentativo dei policy maker di non rassegnarsi di fronte a una malattia che ogni giorno si aggrava, sia pure di poco. I $165 miliardi di adrenalina fiscale già pronti non sono stati ancora iniettati nelle vene delle imprese e dei consumatori americani che il Congresso sta già discutendone altri $35 da mettere da parte per un secondo pacchetto per l’inizio del 2009, nel caso il primo non bastasse. Il dollaro, dal canto suo, approfitta di ogni momento di tranquillità della borsa o del greggio per scendere e dare ossigeno all’America (le esportazioni nette portano a casa un punto di crescita di Pil, il pacchetto fiscale un altro punto, anche se solo per sei mesi, e fanno due).
Poi ci sono i tassi. Poi ci sono i primi segnali, con la proposta depositata dal senatore Frank, di soluzione politica radicale della questione dei mutui (acquisto a prezzi di mercato con denaro pubblico). I repubblicani si oppongono, si andrà avanti a discutere, ci sono di mezzo le presidenziali e i tre mesi di vuoto legislativo ma è già molto notevole che si stia buttando giù qualcosa di radicale già al decimo mese di crisi, quando storicamente (si pensi ai quattro anni tra il 1929 e il New Deal o alla crisi delle Savings and Loans affrontata seriamente solo il terzo anno) i tempi sono stati almeno tripli.
Tutto questo attivismo va bene, ma non deve indurre a un senso eccessivo di tranquillità in chi sta sui mercati. Va bene mettere qualche chip sulle derrate, sui preziosi, sull’energia, ma senza fare troppo sul serio, perché se la crisi si aggrava non è detto che le merci tengano (come minimo perdono il sovrappiù speculativo che vi si sta accumulando sopra), così come non si sono dimostrate così immuni le borse emergenti in cui molti si sono buttati a fine 2007. Questa è una fase (quest’anno e il prossimo) in cui bisogna avere ben chiaro un profilo di fondo difensivo, anche a costo di non sfruttare fino in fondo le occasioni di guadagno.
I policy maker possono fare molto, ma non i miracoli. Paulson si muove con grinta e capacità da mesi, ma i due piani di ristrutturazione dei mutui su cui sta lavorando rischiano di essere poco efficaci, tanto da indurre la Fed a dirgli di cambiare strada e molto in fretta. I prezzi della case continuano a scendere e il massimo che si può sperare è che la discesa rallenti. La banche continuano a essere ingolfate di crediti che devono svendere e svendendoli ne abbassano il prezzo, costringendo altre banche a svendere.
I processi di ricapitalizzazione delle banche vanno avanti ($100 miliardi di capitali freschi a copertura non completa, ma significativa, di $160 di svalutazioni fin qui fatte emergere), ma non possono procedere troppo in fretta.
C’è qua e là qualche segno di saturazione. I fondi sovrani accorsi per primi hanno già perdite e non hanno troppa voglia di mettere subito altri soldi. Le banche devono dunque generare cassa con la dolorosa lentezza della loro attività quotidiana ed è per questo che il risanamento dei bilanci (sui quali gravano in prospettiva tante svalutazioni quante quelle emerse finora) richiederà, nei casi più difficili, ancora un paio d’anni. Si può stare certi che nessuna grande banca affonderà, ma non per questo si può dire che il peggio sia passato.
Sul peggio che ancora potrebbe arrivare, del resto, si affannano ogni giorno i policy maker, e si ha l’impressione che non parlino per dovere d’ufficio, ma che ci credano sul serio. L’economia globale sta rallentando ogni giorno. L’America è a crescita zero e i prossimi tre mesi saranno una traversata del deserto ad alto rischio. Per il momento economia e mercati reggono e il marzo delle borse verrà salvato dal taglio di 50 punti base il 18 e magari da un piccolo rally di fine mese autoprodotto dal mercato per fare sembrare meno orribili le performance del primo trimestre. Forse, con un altro taglio il 30 aprile ce la facciamo ad arrivare al pacchetto fiscale di fine maggio senza farci troppo male, ma ci vorrà una certa fortuna.
Dicevamo che non è il caso di farsi ingolosire troppo dalle alternative dell’oro, del greggio e dell’euro. Dovendo scegliere, l’alternativa più seria, per i prossimi tre mesi di traversata del deserto, è probabilmente il lungo euro/corto dollaro. Nessuno al mondo dubita che il dollaro sia sottovalutato, ma un’inversione seria di tendenza richiede ancora un paio d’anni durante i quali vedremo o stabilità o ulteriore debolezza (salvo un piccolo recupero, forse, nella seconda parte di quest’anno). L’Europa, come dice Feldstein, dovrà smetterla di avere un avanzo con l’America e se vorrà continuare a vivere di esportazioni dovrà rivolgersi all’Asia. I policy maker europei, del resto, sembrano al momento rassegnati e si limitano a mugugni di circostanza. Avere gli Stati Uniti che precipitano in recessione sarebbe per Europa e Asia infinitamente peggio che continuare a rivalutare.
Le materie prime sono legittimate a salire, in questa fase, solo in funzione dell’indebolimento del dollaro, non di più. In realtà salgono di più, perché beneficiano di grossi flussi speculativi. Non è però sostenibile avere una crescita globale che rallenta e materie prime che salgono a meno che non si producano nuovi shock sul lato dell’offerta. Le tensioni geopolitiche che stiamo vivendo (Turchia-Irak, Israele-Gaza-Libano, Colombia-Venezuela-Ecuador) non hanno ancora raggiunto un livello critico e vanno semplicemente tenute d’occhio.
Nel mondo dei crediti ci sono zone ricche di valore (i municipals di qualità, alcuni Cmbs e Clo). Sulle borse è probabilmente ingeneroso Buffett quando dice che non sono a buon mercato, ma il livello d’incertezza sugli utili è e deve rimanere elevato e va scontato nei prezzi. Continuiamo a pensare che sia meglio rimanere sottopesati, almeno fino a maggio.
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