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(WSI) –
Perché le società si quotano in borsa? Per raccogliere sul mercato finanziario i capitali necessari al loro sviluppo, è la risposta standard. Infatti nel 2006 sono entrati 828 milioni di euro nelle casse delle società esordienti in borsa, chiamate anche matricole di Piazza Affari. Ma, sorpresa, una cifra ben più alta, 3 miliardi 708 milioni di euro, è finita in tasca ai vecchi azionisti delle società che hanno venduto i loro titoli sul mercato.
Insomma, il maggior beneficio delle quotazioni va agli imprenditori e agli investitori istituzionali, come i fondi di private equity: secondo una ricerca effettuata da Soldionline per Panorama, questi hanno incassato l’81,7 per cento dei soldi raccolti dalle matricole 2006, oltre 3,7 miliardi è appunto il controvalore delle azioni vendute.
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Invece solo il 18,3 per cento delle risorse, pari a un controvalore di 828 milioni, è finito con un aumento di capitale nelle casse delle matricole di borsa. Un esempio: il petroliere Gian Marco Moratti, suo fratello Massimo (patron dell’Inter) e altri membri della loro famiglia hanno incassato 1 miliardo 710 milioni di euro vendendo le azioni della Saras, mentre nelle casse della società sono entrati 360 milioni.
Come si spiega questo fenomeno? Le società entrano forse in borsa in una logica da prendi i soldi e scappa? «Purtroppo sì, è il tipico atteggiamento dei momenti di boom borsistico» sostiene il banchiere d’affari Giovanni Tamburi.
«L’unica speranza per noi operatori è che l’incremento delle quotazioni sia strutturale e non dovuto al rialzo dei valori del mercato nel 2006. L’anno prossimo penso ci saranno ancora più matricole, ma il mio auspicio è che la borsa sia vista come motore dello sviluppo delle aziende: quindi che i collocamenti avvengano attraverso aumenti di capitale».
Va anche detto che molte matricole di quest’anno rappresentavano disinvestimenti di operatori del private equity, per i quali uscire dalla proprietà è un fatto fisiologico. «Private equity vuol dire società non public, quindi non quotate: perciò è abbastanza usuale, anche sui mercati internazionali, non rimanere dopo la quotazione» spiega Fabio Sattin, presidente della Private equity partners che, insieme a un altro grande fondo chiuso del settore, il Permira, ha collocato quasi tutte le azioni vendute della Marazzi (ceramiche).
«Come fondi di private equity siamo rimasti nella società complessivamente con il 10 per cento» aggiunge Sattin. Ma tutto ciò ha a che fare con il cattivo andamento in borsa di alcune matricole, come appunto la Marazzi? Dipende. A volte anche i manager approfittano dei collocamenti e poi se ne vanno: per esempio Michele Preda, ex amministratore delegato della Marazzi, è stato uno dei venditori delle azioni insieme ai fondi chiusi. Era definito nel prospetto come manager cruciale della società; ora, passati pochi mesi dal collocamento, Preda non ha più deleghe.
«Il problema è che non esiste un’etica del collocamento, è lecito fare qualsiasi cosa» nota polemicamente Paolo Sassetti, analista finanziario indipendente. Che ricorda anche il problema dei conflitti d’interesse delle banche quando sono sia creditrici delle società sia collocatrici delle azioni. Sassetti dice: «Un caso significativo è quello della Piaggio: la società, a causa del suo tipo di business, è costretta a fare di continuo investimenti e quindi è possibile che fra non molto ricorra a un aumento di capitale chiedendo altri soldi al mercato». Sarebbe paradossale: niente aumento di capitale al momento della quotazione ma una nuova richiesta di soldi al mercato dopo poco tempo.
L’azienda di motocicli controllata da Roberto Colaninno è tra le cinque (le altre sono Ansaldo-sts, Banca Generali, Polynt e Valsoia) che sono state quotate nel 2006 senza incassare neppure 1 euro: nel senso che hanno scelto la strada di far guadagnare solo i loro vecchi azionisti.
In alcuni casi la società viene quotata in borsa senza aumento di capitale perché ha già soldi in cassa: per esempio l’Ansaldo-sts vanta una posizione finanziaria netta di oltre 146 milioni. La società è stata collocata consentendo alla controllante Finmeccanica, guidata da Pierfrancesco Guarguaglini, di incassare 468 milioni: ora, però, per le future acquisizioni, l’Ansaldo-sts punta a indebitarsi per circa 300 milioni.
Sassetti dice: «Se l’azienda è in crescita, il primo a non essere interessato a vendere subito è l’azionista di maggioranza. Ma il mercato spesso non sa distinguere se l’azienda va bene o male». Insomma, non c’è una ricetta unica. E va anche ricordato che all’epoca della bolla della new economy sono saltate molte aziende del nuovo mercato che si quotavano quasi tutte con un aumento di capitale.
Le matricole 2006 dove erano presenti fondi di private equity sono Marazzi, Elica, Poltrona Frau, Bolzoni, Antichi Pellettieri (che hanno scelto la vendita di azioni), mentre Arkimedica e Noemalife sono state quotate con un aumento di capitale. Spiega Tamburi: «Questi sono due casi in cui il private equity investe sul futuro. Noi eravamo in un caso azionisti, nell’altro advisor».
Ma come si spiega che oltre l’80 per cento dei collocamenti avviene con la vendita di azioni già esistenti? «Indubbiamente ci sono stati errori» riconosce Simone Cimino, presidente dell’Arkimedica e del fondo di private equity Cape Natexis. Insomma: c’è un problema rispetto al ruolo delle banche d’affari?
Per Cimino sì: «Bisogna diffidare delle matricole in cui il collocatore ha interessi nella società, magari perché la banca ha un credito da esigere o una partecipazione in una finanziaria che controlla la società che viene quotata».
Cimino si definisce «un estremista della visione della borsa come inizio e non come fine di un progetto industriale» e rispetto all’atteggiamento sulla quotazione dice: «Andrebbe abbandonato l’approccio mordi e fuggi nei confronti della borsa. Il mercato non è sempre disponibile, bisogna raccogliere capitale e utilizzarlo per lo sviluppo.
Poi, dopo 18-24 mesi, si può cominciare a vendere le azioni. Ma se credi a quell’investimento, non dovresti vendere mai». E Cimino cita come esempio da seguire Warren Buffett che «tiene le azioni Gillette da 20 anni, perché crea valore e ogni anno ne porta a casa un pezzetto incassando il dividendo». Ma Buffett opera nella provincia americana, molto lontano da Piazza Affari.
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