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(WSI) –
Quando sembrava ormai scomparsa dai radar degli economisti, la bolla dei bond è scoppiata questa settimana. Mercoledì 13 giugno i mercati internazionali hanno registrato un picco del 5,33% di rendimento per il bond decennale USA, poi rientrato al 5,25% che è comunque il tasso più elevato dal 2002. E’ cioè in atto la fuga dalle obbligazioni del pubblico degli investitori che, così facendo, ne hanno abbassato i prezzi e alzato i rendimenti (nei bond, prezzi e rendimenti si muovono in direzione opposta).
Gli economisti che, Alan Greenspan in testa, avevano definito un enigma la salita dei tassi del dollaro dall’1% al 5% ad opera della FED senza che ciò portasse ad un parallelo rialzo dei rendimenti delle obbligazioni sul mercato oltre il livello-simbolo del 5%, sono stati ora colti di sorpresa dal “riaggiustamento”, o “raddrizzamento” della curva dei tassi. Poiché di questo, in realtà, si tratta: mentre ancora qualche mese fa il bond decennale dava il 4,5-4,7%, quindi al di sotto del rendimento del titolo Usa biennale che era attorno al 5%, ora l’ordine normale è stato ristabilito.
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Gli investitori che impegnano i loro capitali per un tempo più lungo, quindi con un maggiore rischio, sono tornati ad ottenere una remunerazione più elevata. La causa della risalita dei rendimenti a lungo termine è da ricercare nel timore diffuso che l’inflazione stia tornando ad essere minacciosa dopo anni di letargo.
I segnali sono globali perchè vengono dalle banche centrali dell’est e dell’ovest: dalla BCE di Francoforte e dalla banca della Nuova Zelanda, che li hanno già ritoccati all’insù e hanno fatto sapere che ci saranno altri aumenti in futuro, alle banche d’Inghilterra, del Canada e del Giappone che hanno in programma interventi di stretta creditizia tra l’estate e fine anno.
Gli aumenti dei tassi, cioè del costo sul mercato della liquidità utile a chi intende chiedere un prestito per la casa come per le società di private equity che vogliono acquistare un’azienda, sono lo strumento principe delle autorità monetarie per raffreddare un’economia in espansione, cioè che crescendo troppo può generare inflazione. Il paradosso attuale è che, se è vero che nell’Europa dell’Ovest e dell’Est come in Cina e in tante altre aree emergenti del mondo è in essere una ripresa sostenuta, l’economia sta tirando il fiato proprio negli Stati Uniti.
Eppure, anziché beneficiarne come di solito capita nei momenti di rallentamento economico che presuppongono un intervento della FED rivitalizzante, ossia con un taglio dei tassi d’interesse che aumenta il valore delle obbligazioni già in mano ai risparmiatori, il mercato dei bond è entrato in depressione. E la spiegazione è che, in realtà, alla “crisi” americana credono in pochi, anche se, dopo essere stata la locomotiva dell’espansione per 6 anni dall’ultima mite recessione del 2001, l’America ha segnato una crescita del PIL nel primo trimestre del 2007 di solo lo 0,6%.
E’ vero infatti che c’è stata la crisi del mattone a gravare sul PIL, e che non se prevede la fine prima del 2008. Ma intanto i consumi tengono alle grande dimostrando che l’impatto del calo del valore delle case (in alcuni Stati) non ha demoralizzato il pubblico. Lo ha evidenziato il dato di mercoledì diffuso dal ministero del Commercio: +1,4% di crescita delle vendite retail in maggio, contro lo 0,6% atteso dagli economisti. “L’economia sta ritornando forte come nessuno s’aspettava”, ha commentato Mark Vitner economista della Wachovia Securities, “ e il mercato dei bond non può proprio riprendere fiato”.
Come dire che la preoccupazione più seria è che Ben Bernanke, il capo della Fed, possa essere indotto nel 2007 a riprendere la politica degli aumenti del tasso Usa, ora al 5,25%, piuttosto che incamminarsi sulla strada della discesa, una aspettativa che aveva fatto portato ai record del Dow Jones e dello S&P nei mesi scorsi. In questo contesto internazionale che spinge per flussi di liquidità sempre più strozzati, insomma, è improbabile che gli Usa vadano in direzione opposta e abbassino il costo del dollaro. Che, non a caso, ha avuto in settimana le quotazioni più alte da marzo, con il cambio di 1,32 dollari per un euro contro l’1,35 di poche settimane fa.
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