Società

Bond: se li avete in portafoglio, attenti che giocate col fuoco

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(WSI) – L’America è certamente una potenza in declino relativo e si trova un carico di problemi così pesanti che difficilmente darà, nei prossimi anni, un contributo rilevante alla crescita mondiale. L’America è però ancora grande abbastanza da poter fare danni tremendi a se stessa e al mondo. Per questo va accolta con sollievo una giornata come il 3 novembre, tutta all’insegna della sobrietà, della consapevolezza dei problemi, della ricerca di un minimo di terreno comune anche se è così divertente e adrenalinico litigare, lanciare fango e rovesciare il tavolo senza avere risolto nulla.

L’America ritrova un poco se stessa, sia in termini di politics (le elezioni) sia in termini di policy (il quantitative easing deciso dalla Fed) e il clima di migliorato rapporto con la realtà coinvolge anche i mercati, che reagiscono in modo complessivamente composto e costruttivo.

In inglese, come in italiano, si distingue tra modestia, umiltà e umiliazione e ora è il momento della humble pie, dove humble sta per sobrio e dignitosamente umile. Un tempo l’inglese diceva “mangiare un corvo bollito” per intendere un doloroso ravvedimento, poi prevalse la metafora del pasticcio di carne fatto con le interiora (humbles o umbles nell’Old English medievale), quello che si potevano permettere i poveri.

Si dichiarano humbled i repubblicani, che pure hanno vinto brillantemente, perché hanno l’intelligenza di capire che non sono stati votati per il loro programma ma perché gli elettori disperati avrebbero scelto anche il primo che passava per strada pur di esprimere il loro malessere.
Si dice humbled anche Obama, che abbandona la sua tendenza all’arroganza intellettuale e riesce a parlare per quasi un’ora con grande dignità e senza punzecchiare neanche una volta gli avversari politici.

I leader repubblicani e il presidente usano le stesse parole, esprimono i medesimi concetti ed è evidente che hanno concordato tutto, tempi, modi, contenuti. Si noti che da tempo si sapeva che le elezioni sarebbero andate come poi effettivamente è stato, ma lo scenario della cooperazione e del capo cosparso di cenere veniva dato come il meno probabile. Si ipotizzava piuttosto un acutizzarsi della faziosità e della rissa permanente fino alle presidenziali del 2012. Oppure, come aveva scritto tra gli altri Calomiris, una sterzata ancora più a sinistra di Obama, come fece Roosevelt, dopo l’inizio moderato, quando nel 1937 la ricaduta dell’economia nella crisi lo indusse ad accuse di complotto rivolte alla Corte Suprema e a una retorica apertamente anticapitalista.

L’affermazione del Tea Party tra i repubblicani e il dimezzamento dei Blue Dogs (i moderati) tra i democratici a vantaggio dei liberal hanno fatto effettivamente pensare per qualche ora alle barricate e a un paese alla deriva. La prospettiva di una punizione ancora più severa da parte degli elettori nel 2012 e il profilarsi di numerosi candidati indipendenti alla presidenza hanno evidentemente indotto i grandi vecchi del partito repubblicano e il presidente a giocare d’anticipo e a trovare un’intesa. Dal canto loro i Tea Party hanno sorpreso per la loro prudenza. Tra loro ci sono uomini brillanti come Rubio (un Obama di destra per storia personale e carisma) che studiano da presidente e sanno che dovranno conquistare il centro.

Intendiamoci, l’intesa bipartisan non tocca ancora i temi bollenti (pensioni, sanità, Iva, capital gain, cancellazione della riforma sanitaria) ma nemmeno li esclude. Per adesso si concentra su una sistemazione più razionale dell’esistente. Ci saranno modifiche sulla sanità che saranno gradite alle imprese. Ci saranno norme attuative che alleggeriranno il carico ideologico e punitivo della legislazione sulle banche. Non verranno aumentate le tasse per un anno (Obama si è rimangiato la promessa di non aumentare mai più la pressione fiscale per la classe media e i repubblicani hanno accettato il fatto che i tagli di Bush un giorno finiranno, in particolare per i ricchi).

Ci saranno poi tagli modesti sulle spese discrezionali, quelle che scatenano gli appetiti dei congressisti che si devono fare rieleggere. Saranno un centinaio di miliardi. Krugman, che dice che non bisogna risparmiare ma spendere, soffrirà ancora di più e continuerà a lamentarsi tutti i giorni sul New York Times, ma 100 miliardi sono una goccia nel mare e hanno un valore più che altro simbolico.

Arriveranno infine giorni magri (ma lo si era già capito) per l’ecologismo radicale del macchinosissimo Cap and Trade, che verrà in pratica archiviato. In compenso si cercherà di fare qualcosa di più concreto e strategico sul gas, in nome dell’indipendenza energetica cui tengono anche i repubblicani.
In queste settimane i mercati sono stati rapiti dal quantitative easing, ma la tenuta del quadro politico e la competizione tra partiti all’insegna della cooperazione (condizione per avviare la discussione sui temi strategici bollenti) sono ancora più importanti. Il QE nel marasma politico avrebbe avuto un sapore inquietante e vagamente zimbabwano. Il QE in un contesto come quello che si profila è un contributo costruttivo che il mercato continuerà ad apprezzare.

La Fed ha gestito benissimo le attese, un po’ come le aziende quando guidano gli analisti verso una stima di utili e poi al momento buono regalano lo zuccherino di un migliorativo. Ha lasciato intendere 500 e ha deciso per 600, lasciandosi peraltro aperte tutte le strade per il futuro.

Anche qui tutto sembra avvenire alla luce del compromesso. I falchi ottengono che non si faccia più menzione del price level targeting (ovvero al recupero dell’inflazione perduta) e le colombe portano a casa l’estendibilità del QE nel tempo.

L’ex Fed Laurence Meyer, che in quanto ex può parlare chiaramente, dice che il QE è fatto e pensato per fare salire la borsa e fare scendere il dollaro e i tassi a lungo. L’hanno accusato subito di essere politicamente scorretto, doveva dire che il QE è fatto e pensato per fare crescere l’occupazione. In realtà sono vere entrambe le motivazioni. Quella scorretta serve a conseguire quella corretta.

Ai mercati spetta il compito di concentrarsi sulla motivazione scorretta e indicibile. E’ quindi opportuno stare lunghi di ciclici e di bond e corti di dollari, ma non con la stessa aggressività. La Fed infatti prima o poi abbandonerà i bond lunghi al loro oscuro destino, mentre per azioni (al rialzo) e dollaro (al ribasso) i tempi e gli spazi saranno maggiori.

Meyer dice anche una cosa ancora più scorretta e quindi molto interessante. Dice che la Fed ha paura di un QE di dimensioni più grandi perché teme di incorrere un giorno in perdite sui suoi Treasuries. Con il QE annunciato, aggiungiamo noi, la Fed diventerà tra l’altro il più grande hedge fund del mondo e supererà, con i suoi tre trilioni, i 2.7 che la Cina si è messa via in questi anni. La Fed, tecnicamente, si indebita con le banche allo 0.25 e investe su tutta la curva. La sua equity è zero e la sua leva è quindi infinita (quello cinese, per contro, è tutto real money).

Dal 2009 la Fed, con il suo carry trade, porta in dono al Tesoro una cinquantina di miliardi l’anno. Non è tantissimo, ma è pur sempre la metà dei tagli alle spese discrezionali che il Congresso si appresta ad affrontare. Se la Fed non li portasse in dono bisognerebbe tagliare, a parità di condizioni, di 150 e non di 100. Se poi la Fed dovesse realizzare delle perdite, molti senatori si arrabbierebbero e coglierebbero l’occasione per limitare ulteriormente l’indipendenza della Fed.

La Fed può evitare di realizzare perdite come fanno tutti i mortali che immobilizzano i titoli, portandoli cioè a scadenza. Questo è abbastanza facile fino ai 5-7 anni (il tempo che ragionevolmente richiederà l’exit strategy) ma è decisamente più imbarazzante per decennali e trentennali. Eppure ugualmente, con un certo coraggio, la Fed metterà 36 dei 600 miliardi di QE in titoli fra i 10 e i 30 anni.

I mercati, dicevamo, hanno reagito con compostezza alle elezioni e al QE. Molti pensano che tutto sia già nei prezzi ma non è vero. Certo, i movimenti saranno da qui in avanti più lenti, tanto sull’azionario quanto sul dollaro, ma la tendenza rimarrà la stessa.

Non dimentichiamo che i dati macro cinesi segnalano una buona ripresa della crescita, mentre quelli europei ci parlano di una decelerazione più lenta del previsto. Venerdì, infine, l’occupazione americana uscirà buona. Il QE moderato annunciato dalla Fed non fa pensare a una volontà di reflazione aggressiva. Continuiamo però a pensare che un’inflazione vivace sia una possibilità (con un 30 per cento di probabilità) da metà decennio in avanti.
Va contemplata la possibilità che il QE abbia un effetto positivo ma moderato sull’occupazione. Se così dovesse essere se ne farà certamente dell’altro, ma a un certo punto potrebbe venire voglia di tagliare i tempi e introdurre un price level targeting aggressivo.

Dice Krugman (ma l’hanno detto in tanti, tra cui Rogoff, Blanchard e perfino il repubblicano Mankiw) che la Fed dovrebbe alzare l’obiettivo d’inflazione al 5 per cento l’anno di qui al 2015. Per essere ancora più chiara, la Fed dovrebbe dire che, fatti 100 i prezzi di oggi, a fine 2015 dovrebbero essere a 128 (il 5 per cento composto).

E’ un’idea che oggi appare aggressiva, ma se le cose dovessero trascinarsi a un certo punto potrebbe apparire inevitabile. Chi ha bond dovrebbe fare un test e vedere se il loro ritorno totale (variazione di prezzo più cedola) ha la possibilità di raggiungere il 28 per cento da qui a fine 2015. Scommettiamo di no.

Si dirà che i bond in euro vivono in un mondo diverso e che la Bce non farà QE e continuerà a opporsi all’inflazione. Storicamente, però, si vede che tutte le volte che c’è stata inflazione in America c’è stata anche in Europa, anche se di uno-due punti percentuali in meno. C’è un 70 per cento di possibilità che sia prematuro occuparsi di questi rischi, ma il 30 restante va tenuto presente, se non altro come stress test.

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.