*Michele Pezzinga e’ lo strategist di CentroSim. I suoi commenti non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
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(WSI) – Bastano un paio di sedute pesanti sull’obbligazionario per riaprire il solito dibattito tra gli addetti ai lavori: siamo davvero giunti all’epocale inversione di tendenza dei bond markets o si tratta della solita, periodica correzione, che non modifica comunque un trend di fondo ancora orientato verso la discesa dei rendimenti?
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Da una parte abbiamo i pessimisti (in questo caso da anni ormai non siamo tra loro) che, dopo il naufragio delle loro attese già lo scorso febbraio, tornano alla carica, convinti che la FED andrà ancora avanti ad alzare i tassi e che l’economia USA riaccelererà dopo la pausa primaverile; dall’altra i loro avversari, fiduciosi in un’imminente conclusione della stretta monetaria americana e in ulteriore rallentamento congiunturale, che le elevate quotazioni del greggio e la temuta frenata cinese dovrebbero rendere più concreto nella seconda metà dell’anno.
Pur collocandoci in questo secondo campo, una correzione ci sembrava, almeno in questa fase, comunque opportuna: lo strappo al rialzo, che una decina di giorni fa aveva fatto finire il rendimento dei decennali addirittura sotto quota 3,90% negli USA e al 3,13% nell’area euro, si era anche accompagnato alla brusca chiusura di uno scoperto record per oltre 200 mila contratti sui futures del T-bond a 10 anni, erano anzi emerse significative posizioni lunghe e alcuni strategist, ribassisti della prima ora, avevano improvvisamente cambiato opinione sui trend del mercato.
Insomma, tutti segnali di un clima troppo euforico che solitamente (ricordate anche l’unanime consenso di inizio anno sull’attesa debolezza del dollaro?) conduce ad eccessi presto da scontare. Basta solo qualche elemento di disappunto, in questo caso la Fed che ha smentito di essere pronta a fermarsi sui tassi e l’economia USA che ha continuato a fornire buoni segnali di tenuta. Non ultimo l’euro, che è affondato sul no dei referendum, mettendo in discussione la stabilità dell’area.
Tutti elementi a nostro avviso interlocutori, ma che i pessimisti hanno letto come segnali di inversione biblici. Cercare una legittimazione del ribasso negli ultimi dati macro è un po’ forzato: ad essere sinceri, in questi giorni chiunque potrebbero trovarvi conferma alle proprie ragioni. In ogni caso, davvero l’inflazione sta risalendo come temuto? Al contrario, appare in frenata, da noi come oltreoceano, sui dati “core” e su quelli complessivi.
Nell’area UE-12, i prezzi al consumo armonizzati di maggio sono saliti di uno 0,2%, pari ad un +1,9% annuo e a un +1,6% annuo ex alimentari ed energia; negli USA i prezzi alla produzione di maggio sono scesi dello 0,6%, e saliti di uno 0,1% soltanto nel caso di quelli “core”, mentre più a valle del ciclo produttivo i prezzi al consumo sono scesi dello 0,1% e saliti di un altro modesto 0,1% escludendo alimentari ed energia, con un incremento su base annua così sceso al 2,2%.
Solo il petrolio e alcuni metalli non ferrosi (primo fra tutti il rame), di nuovo ai massimi di periodo, sembrano andare in controtendenza, mentre dal costo dei noli marittimi, ai rottami ferrosi o all’acciao, tutto sembra riflettere un auspicato rallentamento della domanda asiatica che lascia ben sperare anche per l’inflazione dei mesi a venire (il greggio poi sembra ormai avere più un impatto “recessivo” che non “inflazionistico”).
E’ allora l’attività economica che sta ripartendo bruscamente? Non è certo questo il caso in Europa, dove si salva solo una provvidenziale ripresa dell’export favorita anche dal cambio più debole. Di ciò non sembra comunque capace di avvantaggiarsi una realtà come l’Italia, che sta perdendo quote di mercato a danno anche degli altri partner continentali.
L’area asiatica vede un Giappone in confortante ripresa, ma anche il rischio di una più concreta frenata cinese, pilotata dalle Autorità di Governo: un’ipotesi che potrebbe avere conseguenze molto serie sull’intera economia globale, e non solo sui partner commerciali più vicini.
Una qualche riaccelerazione sembra registrarsi invece negli USA, anche se finora i segnali non sono stati incontrovertibili: al netto recupero dell’indice di attività manifatturiera nello Stato di New York con l’Empire State Index (da -11,1 a +11,6 la sua lettura, con zero lo spartiacque tra crescita e contrazione dell’attività), ieri sera si è contrapposta la caduta dell’indice della Fed di Philadelphia, a sorpresa scivolato a quota -2,2 da una lettura a quota 7,3 in maggio, smentendo i pronostici che puntavano su un suo ulteriore miglioramento.
La produzione industriale è invece apparsa più forte del previsto, con un +0,4% in maggio (e +0,6% nel comparto manifatturiero) cui si è aggiunto un maggior grado di utilizzo degli impianti (79,4%, dal 79,1% di aprile), ma i ritmi di crescita complessivi non appaiono comunque travolgenti (+2.7% su base annua e +3,4% nel comparto manifatturiero); i dubbi sulla sostenibilità della crescita industriale nella seconda metà dell’anno a nostro avviso rimangono.
Quanto al mercato del lavoro, nelle ultime quattro settimane le richieste di sussidio sono tornate ad oscillare attorno alle 330-335mila unità, un livello che non lascia intravedere una crescita del PIL superiore al 3% nel trimestre in via di conclusione.
Il punto chiave rimane sempre lo stimolo che giunge dal mercato immobiliare e il rischio di un suo surriscaldamento: Greenspan lo minimizza, ma la manovra monetaria sembra finalizzata proprio a prevenire questa potenziale bolla cercando al tempo stesso di non penalizzare troppo la crescita dei consumi delle famiglie, che proprio nel boom della casa ha trovato alimento.
La nostra impressione rimane pertanto che le curve rimarranno ancora poco inclinate, poichè tanto più la FED continuerà ad alzare i tassi, tanto più i mercati sconteranno un rallentamento futuro di attività: il solo dubbio per noi è dove avverrà l’incontro tra i Fed funds e il rendimento dei decennali, che tenderà a fine manovra a convergere sui primi, se in un intorno del 3,75, del 4 o del 4,25%. L’area 4% ci sembra quella più ragionevole.
La debolezza dell’euro è invece l’imprevista novità che potrebbe complicare lo scenario, frenando gli afflussi verso i bond continentali. Le vendite di Bund degli ultimi giorni sembrerebbero innescate, a parte i soliti fondi hedge in presunta difficoltà, anche da investitori asiatici intenzionati a liquidare le posizioni nell’area alla luce della percezione di un maggior rischio cambio.
Qui il problema è soprattutto politico, legato al futuro dell’Unione Europea, che ieri persino il vicepresidente della BCE, Papademos, ha voluto velatamente mettere in forse, evidenziando una crescente divergenza di competitività tra alcuni dei suoi Paesi membri (i riferimenti all’Italia erano espliciti), che sembra avere effetti persistenti e cumulativi.
Gli attesi aumenti di produttività e flessibilità di mercato che l’euro avrebbe dovuto stimolare non si sono affatto verificati, e anzi prevale da parte di alcuni dei maggiori Paesi membri la volontà di differire le attese riforme strutturali, da cui la perdurante sottoperformance dell’area nei confronti del resto delle economie industrializzate.
Critiche pesanti, capaci di incidere sulle prospettive del cambio; il dollaro non sembra infatti in grado di brillare di luce propria, visto che il problema del disavanzo esterno non sembra destinato a risolversi, men che meno ora che il cambio si è rafforzato e l’auspicata svalutazione cinese sembra essere stata accantonata.
Gli ultimi dati sugli afflussi di capitale USA mostrano di nuovo un pericoloso rallentamento, 47,4 mld di dollari soltanto in aprile dopo i 40,6 mld di marzo, quando però nei due mesi il deficit commerciale era ammontato a 57 e 53,5 mld di dollari. L’ipotesi di una debolezza strutturale del dollaro rimane a nostro avviso confermata, ma nel breve i dubbi “politici” sull’euro hanno avuto la meglio e potrebbero ancora differire i tempi del necessario aggiustamento della valuta USA.
In definitiva, non intravediamo alcuna svolta su economie e obbligazionario; tantomeno quindi, per venire alle Borse, sui comparti difensivi, le cui potenzialità dovrebbero riemergere con la maggior percezione di una crescita globale più stentata. Da inizio 2005 le utitilies si sono mosse bene a Wall Street (+8,5%, miglior comparto dopo l’energia) e sulle Piazze Europee (+10% circa l’indice Stoxx di settore), mentre hanno stentato da noi, forse a causa di una precedente outperformance e dell’incombente collocamento di Enel.
Tra i difensivi continuiamo a non includere le nostre telecomunicazioni, che riteniamo ancora soggette a significativi rischi “tecnologici” e di assetto di mercato (maggior concorrenza) ed in ogni caso poco appetibili, in termini di valutazioni, rispetto alle altre realtà continentali. In questi casi, un rendimento del 4-5% non è a nostro avviso sufficiente per ritenersi tutelato da simili rischi.
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