Lunedì 15 marzo vengono a maturazione obbligazioni Lucchini per 100 milioni di euro. La cifra non è elevata, anzi la si potrebbe considerare modesta se solo la si confrontasse con l’entità, 3 miliardi di euro, dell’ultima emissione obbligazionaria eseguita con successo da Telecom Italia. E tuttavia la scadenza dei bond Lucchini è molto importante.
Essa infatti rappresenta la prima verifica di come riesce a reagire ai crac di Cirio e Parmalat quella parte dell’Italia industriale che aveva scelto la scorciatoia dei corporate bond senza rating per reperire prestiti in aggiunta o, talvolta, in sostituzione di quelli bancari per finanziare progetti di sviluppo o tentare salvataggi.
Il test è significativo non solo e non tanto per la figura dell’ex presidente della Confindustria, Luigi Lucchini, quanto e soprattutto per tre altre ragioni: a) diversamente da Telecom, Enel o Eni, il gruppo siderurgico bresciano opera su un mercato fortemente concorrenziale e, per sua disgrazia, ha i conti in rosso; b) il proprietario, pur avendo occupato posizioni di primo piano nell’alta finanza sotto l’egida di Mediobanca, non gode più della protezione di Piazzetta Cuccia per la semplice ragione che un certo mondo va scomparendo; c) le obbligazioni Lucchini sono senza rating, sono cioè titoli ad alto rischio che il mercato finanziario aveva sottoscritto volentieri nel 2001, senza badare alle difficoltà dell’altoforno di Piombino già allora evidenti, ma che ora non riscuotono più la fiducia del pubblico. Se Lucchini non riuscisse a doppiare lo scoglio del 15 marzo, sarebbe il terzo, clamoroso default dopo quelli di Cragnotti e di Tanzi. Ma la Lucchini ha già costituito un deposito vincolato presso la banca incaricata del pagamento.
Nelle recenti audizioni parlamentari, i capi dei primi quattro gruppi bancari italiani hanno promesso che non offriranno più alla clientela, almeno per un certo periodo, obbligazioni senza rating. Anzi, alcuni di loro hanno riferito che avevano già cessato questo genere di emissioni da un paio d’anni. Ostracismo, dunque, per quelli che a Wall Street vengono definiti junk-bond. Ma la corale ripulsa non è altro che l’altra faccia della disponibilità delle banche ad aiutare, quando non a incoraggiare, le imprese a ricorrere a questo fin troppo comodo strumento finanziario.
Per emettere obbligazioni senza rating le aziende non devono dare informazioni speciali al mercato o assumere l’impegno a un governo societario trasparente. Non servono garanzie o pegni. Meno che mai vengono richiesti i vecchi piani di ammortamento dei mutui come si usava un tempo per costringere tutti – debitori e creditori – a una gestione virtuosa e prudente. Di fatto, con i corporate bond, si consolida l’esposizione a quattro, cinque o quindici anni. Se sono senza rating, basta pagare un interesse appena un po’ più alto di quello sui prestiti tradizionali ai quali talvolta l’impresa non avrebbe nemmeno accesso.
Le banche, d’altra parte, lucrano più o meno ricche commissioni, non si caricano di ulteriori rischi e in certi casi, con i quattrini dei risparmiatori, tengono in vita senza pagar dazio clienti che avevano affidato in eccesso.
In Italia sono in circolazione obbligazioni senza rating per 11 miliardi di euro, una frazione cospicua del totale dei corporate bond che è pari a 81 miliardi. Le obbligazioni senza rating equivalgono agli impieghi verso la clientela di una banca di medie dimensioni: di un Banco di Brescia Cab, per esempio. Ebbene, è come se qualcuno chiedesse il rientro di tutti i clienti di una banca del genere nel volgere di tre anni.
L’operazione non sarà sempre facile.
La platea delle società emittenti è vasta e variegata: si va dalle Ferrovie dello Stato all’Alitalia, da Pirelli a Mondadori, da Benetton a Tiscali, da Impregilo all’Espresso, da Merloni all’Autostrada Torino-Milano; e non mancano soggetti non quotati come la casa di moda Versace e il gruppo alimentare Barilla, Frati di Mantova o la veneta Aprilia, Fantuzzi e Giochi Preziosi.
Per qualche holding basterà attingere al dividendo straordinario di una buona controllata. Altre società daranno fondo alle risorse interne, altre ancora chiederanno fiducia alle banche in attesa di un rating che consenta loro di tornare a proporre bond più tranquillizzanti. Nessuno, invece, riuscirà a rimborsare le vecchie obbligazioni emettendone di nuove senza questo sigillo di garanzia, peraltro non assoluta. E allora banche e imprese dovranno tornare a prendersi le loro responsabilità.
E’ una svolta possibile. E utile. Il caso Lucchini ne è la prova. Infatti, nonostante le difficoltà, Lucchini rimborsa. Farà fronte alla scadenza grazie all’intesa con le banche, che avevano accordato nuove linee di credito in cambio di una doppia garanzia: l’apporto di 120 milioni di euro a fondo perduto da parte della famiglia e la concessione dei pieni poteri a un management esterno, gradito ai creditori.
Non è stato un prezzo da poco metter mano al portafoglio e farsi commissariare, ma il buon nome è salvo, l’azienda può continuare e, grazie alla congiuntura di nuovo favorevole dell’acciaio, ha oggi una speranza in più di ieri. Potrebbe far scuola per i casi più difficili. Del resto, come direbbe Milton Friedman, nessun pasto è gratis.
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