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BLOOMBERG: SE FOSSE QUOTATA SAREBBE SHORT

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Alcuni insider newyorkesi del settore media fanno luce sul clima interno al colosso dell’informazione finanziaria Bloomberg, ora che il padre-padrone miliardario e fondatore Michael Bloomberg ha cambiato nome in “Mike” e si e’ fatto eleggere (con una campagna elettorale costata oltre $75 milioni) sindaco di New York City.

“It’s a white-collar sweatshop” (cioe’ una societa’ che sfrutta i professionisti), protesta un giornalista del gruppo.

Secondo il New York Post (il quotidiano controllato da Rupert Murdoch, che con Bloomberg non ha mai avuto molta sintonia), i malumori interni alla societa’ sono cosi’ forti da aver valicato l’Atlantico. Proteste e commenti malevoli sono stati pubblicati dal paludato The Times of London, sulle cui pagine un altro dipendente di “Mayor Mike” sottolinea che l’azienda e’ soprannominata “Doomsberg”, o luogo del giudizio (tra parentesi Bloomberg e’ uno dei sindaci meno popolari degli ultimi 20 anni).

Chris Taylor, portavoce della societa’, fa presente che il fatturato del gruppo (rigidamente non quotato in borsa, per cui profitti e perdite sono top secret) continua ad aumentare, nonostante la crisi di Wall Street.

Ma Bloomberg deve far fronte al profondo ridimensionamento, ormai giunto al terzo anno, della borsa USA. Le principali banche d’affari sono ancora alle prese con migliaia di licenziamenti, motivo per cui i contratti per la ricezione di news, dati e analisi finanziarie tramite terminale vengono cancellati. La societa’ e’ in feroce concorrenza con Reuters e con Thomson Financial, con cui divide la quasi totalita’ del mercato.

I profitti di Bloomberg LP, controllata da Bloomberg al 72%, sono stati comunque sufficienti nel corso degli anni a fare di Mike un uomo
molto, molto ricco, consentendogli di accumulare un patrimonio stimato dalla rivista Forbes in $4 miliardi di dollari (sempre meno della meta’ rispetto a Silvio Berlusconi, comunque).

Eppure all’interno del colosso
dell’informazione finanziaria ci sono stati di recente visibili segni di preoccupazione. Poche settimane fa la societa’ ha chiuso senza preavviso la rivista Bloomberg Personal Finance, tra l’altro dopo aver varato un costoso restyling firmato da un noto designer.

La chiusura del magazine (che nel novembre 2002 aveva compiuto il sesto compleanno ma che aveva anche toccato un passivo totale di $50 milioni) ha dato la stura alle voci di licenziamenti. Per il momento si sono rivelate non fondate, ma il rumor serpeggia tra i membri dello staff editoriale e dilaga ai piani alti.

“People are trying to get out and they really miss Mike” (“I giornalisti stanno cercando di andarsene, sentono la mancanza di Mike”), rivela un dipendente.

Secondo quanto confermato al New York Post dall’ufficio stampa di Bloomberg, “tutti coloro che lavoravano a Bloomberg Personal Finance hanno avuto un’altra offerta all’interno dell’azienda, allo stesso stipendio”.

Ma da una fonte interna degli uffici di Princeton, nel New Jersey (la sede principale, con 2.200 dipendenti su un totale di 8.200, e’ a Manhattan), arriva l’indiscrezione che da quest’anno i giornalisti del gruppo devono lavorare almeno 10 ore al giorno. “E’ l’equivalente di un taglio dello stipendio tra il 10% e il 15%, senza menzionare che la
vita privata va a farsi benedire”, scrive il velenoso New York Post.

In questo scenario, la portavoce ha confermato le voci di un tentativo da parte dei sindacati di esercitare una qualche forma di controllo mettendo un piede all’interno della societa’, dove le “union” sono state sempre tenute attentamente alla larga.

Nulla di strutturato, ma la AFL-CIO sta cercando di organizzare una protesta in strada, davanti al quartiere generale del gruppo, a Midtown Manhattan.

Patricia Hoffman, sindacalista dell’Office and Professional Employees
International Local 153
, conferma: “Siamo nella fase iniziale. Ma abbiamo gia’ avuto
una buona risposta”.

Secondo l’ufficio stampa di Bloomberg, l’attivita’ sindacale sarebbe stata confinata alla distribuzione di volantini per due giorni all’esterno dell’azienda.

Il commento ufficioso da parte dei manager del gruppo e’ che alla Bloomberg non ci sarebbero in ogni caso molte adesioni per consentire lo sbarco di un sindacato aziendale. “I nostri livelli di stipendio sono molto competitivi – osserva Chris Taylor -, e non penso che ci sia una societa’ in grado di fornire ai propri dipendenti benefit migliori di quelli che offriamo noi”.

Ma secondo le voci che da anni rimbalzano da New York a Londra, alcuni dei privilegi di cui godono i giornalisti di Bloomberg – cibo, panini a volonta’ e caffe’ gratis – avrebbero in realta’ lo scopo di non far uscire i dipendenti dagli uffici, sia per farli rimanere piu’ a lungo alla scrivania a lavorare, sia per impedire loro di intrattenere rapporti con i colleghi di altre aziende media.

“Sto aspettando che installino un terminale Bloomberg nei gabinetti”, protesta un giornalista che se ne vuole andare e che rimpiange i tempi in cui Mike non era sindaco di New York, ma “solo” il n.1 dell’azienda.

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