Roma – Sono 30 anni che ci ripetiamo che ” tutti questi ricordi sono destinati a perdersi come lacrime nella pioggia”, 30 anni che diciamo ” ne ho viste io di cose che voi umani…”, che usiamo il termine replicante per identificare i robot indistinguibili dagli umani e che temiamo un futuro in cui la pioggia costante oscuri il sole e ci incastri in metropoli disumanizzanti in cui è facile morire è difficile amare. 30 anni in cui Blade Runner ha fatto penetrare nell’immaginario collettivo, anche di chi la fantascienza non la conosce bene, le idee, i pensieri e le suggestioni di Philip K. Dick attraverso l’estetica del fumettista Enki Bilal (da cui il regista Ridley Scott prese ispirazione per la visione del suo futuro retrò), attraverso le scenografie di Syd Mead e le musiche di Vangelis.
Oggi, a due giorni dal centenario di un altro pilastro degli studi sull’intelligenza artificiale, Alan Turing, sono 30 anni in cui la società ha inglobato a tutti i livelli il film del 1982 mentre il cinema non ne ha risentito particolarmente. Nonostante l’apprezzamento e la statura del film crescessero anno dopo anno, la fantascienza e il noir (i due generi agitando i quali si ottiene Blade Runner) non ne sono stati influenzati come si penserebbe.
Forse per questo rivisto oggi (e lo si può dire con cognizione di causa viste le volte che Ridley Scott con i suoi rimaneggiamenti ce lo ha riproposto) la versione cinematografica di “Do Androids Dream of Electric Sheep?” appare ancora nuova, intatta e rivoluzionaria come ieri.
Se non si considerano le trovate antecedenti a Blade Runner che il film ha riproposto (come le macchine volanti, il controllo delle megacorporation sulla società o le metropoli del futuro sviluppate verso l’alto) molto poco di quel che il film mostrava di nuovo si è visto in pellicole successive.
La proposizione di un futuro analogico, come l’ estetica retrofuturistica, ma anche solo l’ eterna pioggia si vedono in film distopici seguenti come Dark City o Gattaca, ma non sono mai diventati uno standard come la fama e l’amore per il film di Ridley Scott lascerebbero immaginare.
Forse Blade Runner era troppo. Troppo dettagliato, preciso, ineffabile e perfetto nella sua imperfezione (come tutti sanno, la versione che lo rese famoso, la prima, non era quella che Scott avrebbe voluto) per essere imitato, i suoi temi e le sue trovate troppo legate allo specifico dei temi raccontati (la lotta per ritrovare la propria umanità contro la morte) per trovare spazio altrove. Non erano trovate buone per tutti i film ma specifiche per quel capolavoro.
La fantascienza che racconta di futuri in cui tutto è andato male è diventata semmai l’opposto, molto spinta sul versante tecnologico e molto centrata sull’ossessione del controllo e della società di massa, invece che sulla fuga dei singoli dal proprio destino.
La stessa macchina Voight-Kampff, utilizzata per aiutare gli umani nei test mirati a svelare l’intelligenza artificiale, somiglia molto a un utensile analogico più che a uno digitale, come anche la tecnologia impiegata da Deckard per scandagliare una fotografia. Sono tutti esempi di una visione futuristica ancorata al passato o al presente che ha trovato poco seguito pur avendo un precedente illustre ( Alphaville di Jean-Luc Godard).
In questo muoversi lungo mode, tecnologie e estetiche di diverse età (né completamente presenti, né passate, né totalmente futuribili) Blade Runner rimane eterno. Chiuso negli androni e nelle sale immense del Bradbury Building è fuori dal tempo e quindi sempre attuale.
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