Società

BERTINOTTI
E IL CAPITALISMO

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(WSI) –
A costo
di stupire chi sia convinto che qui scrive sia
un bardo del libero mercato sì, ma cieco
per di più al punto di lodarlo anche quando
non esiste, dirò che ieri a sorprendere
non è la dichiarazione di Fausto Bertinotti
sulla condizione di impresentabilità del capitalismo
italiano, ma lo stupore della reazione
che ha suscitato. Proprio
chi ha a cuore il mercato
vero, non può che riconoscere
che nel nostro
Paese effettivamente i privati,
anche i grandi privati,
anzi forse proprio i grandi
privati, hanno poche virtù e
risultati da poter vantare.

Non vale lo stesso per la
vastissima platea di piccole
e medie imprese, che non
possono vantare né un fisco
a loro misura – pagano un’aliquota media
di sette-otto punti superiore alle grandi
– né un credito per loro vantaggioso – il
costo del credito per loro è maggiore – né
un capitale di rischio intermediato a loro
vantaggio, vista la fatica che continua a registrare
nel nostro Paese la figura dell’intermediario
non bancario, il venture capital, il
private equity e via discorrendo.

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Certo, l’orrore
nell’orrore è che magari cattivi capitalisti
abbiano di fronte a sé politici interventisti,
che questi ultimi traggano spunto dagli
errori dei primi per rilanciare proprio il
ruolo improprio di ministri della Produzione,
e che alla fine ciascuno insomma additi
l’errore degli altri per negare il proprio. Si
chiama crisi della classe dirigente, un quadretto
di questo tipo. Francamente, questa
attuale Confindustria non ha le carte molto
in regola, per reagire al duro e criticabilissimo
giudizio di Fausto Bertinotti.

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