La maledizione delle Azzorre – come era prevedibile e previsto – sta perseguitando Berlusconi. Nel tentativo di divincolarsene, il premier si agita troppo, compiendo mosse che peggiorano la situazione e disperdono quel piccolo gruzzolo di credibilità internazionale che la nuova Italia aveva accumulato nella fase precedente alla guerra. Fino alle Azzorre, appunto.
Berlusconi aveva fatto una scelta di campo firmando la lettera degli Otto e schierandosi contro il fronte del no franco-tedesco. Discutibile, e in Italia molto discussa; ma almeno razionale, al fine di cercarsi un posto nel nuovo scacchiere internazionale. Ai critici che gli ricordavano che la tradizionale linea italiana era filo-Usa, filo-europea e filo-araba allo stesso tempo, Berlusconi aveva buon gioco nel ribattere che la guerra dell’Iraq non consentiva più di essere tutte e tre le cose assieme. E che una posizione cosiddetta «euro-atlantica», dunque molto vicina alla Gran Bretagna nel tentativo di fare da ponte tra le due sponde dell’oceano, corrispondeva agli interessi nazionali nella nuova situazione internazionale.
Ma una linea «euroatlantica» passava per le Azzorre, perfino geograficamente poste nel mezzo dei due continenti da conciliare. Il nostro premier non ci andò non perché non fosse stato invitato (l’invito l’avrebbe ottenuto, gli americani erano più che ansiosi di avere molti posti a tavola) ma perché pensò saggio defilarsi di fronte a un’opinione pubblica interna che rumoreggiava. Niente di male, c’è chi leader e chi follower. Non pretendiamo certo noi da Berlusconi la statura di Blair. Magari avremmo evitato di esporre apertamente il calcolo ipocrita che c’era dietro questa scelta, definendo un capolavoro diplomatico l’aver fatto credere agli Usa che stavamo con loro e agli italiani che non stavamo con gli Usa.
In ogni caso, queste furbizie hanno un prezzo, che ad Atene Berlusconi ha pagato. Se infatti l’ostilità di Chirac e Schroeder era naturale, non è naturale che quei due paesi, pur ansiosi di ricucire con Bush, ci ignorino completamente, rivolgendosi invece a Londra e Madrid. Né è naturale che per riconquistarsi un ruolo atlantico l’Italia sia costretta oggi a essere più realista del re, e non possa dire a Bush ciò che gli amici gli dicono: di lasciar stare la Siria. Blair lo può dire (era a Bassora); Aznar può fare il mediatore con Damasco (era alle Azzorre). Berlusconi non c’era, e dunque oggi non c’è, essendo stato anche lui, a modo suo, un né né.
Non è gradevole per il primo ministro italiano dover firmare senza discutere un documento scritto da Chirac e Schroeder, Blair e Aznar. Ma questo è successo ad Atene. Purtroppo L’Italia esce dalla guerra avendo perso una posizione. Prima era il quarto europeo, oggi è il quinto. Era l’ultimo dei grandi, oggi è il primo dei piccoli. La partita non è persa – ci sono sei mesi di presidenza europea a disposizione – ma finora è stata giocata male.
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